venerdì 31 ottobre 2014

Nicola Zitara



ABBIAMO TRADITO I NOSTRI FIGLI


Non c’è famiglia che  non lavori per assicurare un avvenire ai figli.  Bisogna però chiarire  che, nella millenaria storia dell’uomo e dei popoli, la qualità del lavoro cambia. In una società molto primitiva, allorché l’uomo non conosce né  l’agricoltura né l’allevamento, gli adulti si muovono sulla superficie terrestre in cerca di un luogo in cui i frutti spontanei e i piccoli animali da cacciare siano abbondanti, o meno scarsi. Solo così possono assicurare il cibo ai loro figli. In una fase parecchio successiva, quando gli uomini hanno scoperto l’agricoltura e l’allevamento, e gli esseri umani non sono più  nomadi che viaggiano verso luoghi ignoti, la terra disponibile, che prima appariva illimitata, diviene limitata.

Il passaggio dalla disponibilità illimitata di terra alla indisponibilità delle terre si può vedere nei film western. Quando si forma la proprietà privata, i padri e le madri più fortunati lasciano al figlio un fondo in cui questi lavorerà duramente, e tuttavia conserverà la sua libertà. Infatti, al tempo di Omero, chi non ha un suo pezzo di terra vive da servo o fa il mendicante. Nei secoli successivi, le classi sociali si fanno più articolate. Oltre ai proprietari di terra o di animali, ci sono gli artigiani indipendenti e i lavoratori dipendenti, i cosiddetti proletari, coloro che non hanno niente, tranne la capacità di lavorare per gli altri e che, per questo, ricevono un salario.

Trascorrono ancora parecchi secoli e accanto ai salariati, in Grecia e a Roma, si forma la classe degli impiegati. Dopo averli vinti e ridotti in schiavitù, i romani usano molto spesso e con gran profitto i magnogreci più istruiti come impiegati: contabili, amministratori, medici, giuristi, insegnanti dei figli. Sotto l’Impero romano nasce anche la più vasta forma di impiego pubblico dei tempi passati, quella del soldato. La classe degli impiegati statali di tipo fiscale e amministrativo cresce incredibilmente con la nascita e lo sviluppo dello Stato moderno.       

La premessa serve a chiarire che l’analisi delle prospettive di lavoro dei giovani del Sud è un fatto della storia ed è connessa con l’involuzione dell’assetto produttivo meridionale a partire dal 1860, il disastroso anno in cui il Paese meridionale fu conquistato dai Padani, più che con le armi, con la truffa della fondazione di una libera nazione italiana e di un’Italia una e indivisibile. A quel tempo la percentuale maggiore della popolazione era fatta di contadini; venivano subito dopo gli artigiani, gli operai, i marinai, gli scaricatori, i facchini, i soldati. Nell’insieme, poco meno del 90 per cento della popolazione. Nel rimanente 10 per cento c’erano i padroni di terre, di fabbriche, di vascelli, di case commerciali e bancarie, i professionisti, i giudici, gli impiegati, compresi gli ufficiali, i preti, i monaci e le monache.         

Oggi questo quadro è fortemente cambiato. La classe dei contadini è praticamente  scomparsa. La classe dei padroni di terre si è enormemente dilatata, ma le attività agricole non sono più remunerative. Chi possiede un podere, persino un grosso podere, cerca sul mercato un’altra attività produttiva di reddito, di regola un impiego pubblico o una professione, assegnando alla terra la funzione d’integrare il reddito principale. 

Sono scomparse quasi tutte le altre figure padronali, tranne i padroni di case. Anche la classe dei commercianti, che sembra sopravvivere come classe per sé,  opera in condizione di libertà limitata, nell’ambito della distribuzione padana. Molto simile l’evoluzione dei professionisti. Come gli insegnanti, un tempo collegati essenzialmente  con le parrocchie e i vescovadi, in appresso inquadrati dallo Stato, anche medici rappresentano, oggi, una figura di lavoro dipendente e impiegatizio. Apparentemente liberi come professionisti, ma in realtà dipendenti o collegati alla spesa pubblica o agli investimenti del grande capitale, sono gli ingegneri, i geometri e gli architetti. Sono  dipendenti dalla spesa pubblica anche i farmacisti. 

Si è invece consolidata la classe degli artigiani indipendenti, con la funzione di base logistica di servizio, di castrum, rispetto alla produzione industriale padana.        

Le famiglie benestanti cercano di ancorare il guadagno di oggi in qualcosa che è idonea a riprodurre un reddito nel tempo, come un appartamento da affittare, investimenti  in titoli o in assicurazioni, e cose simili. Tuttavia l’investimento, oggi, più diffuso e comune è la formazione professionale dei figli. Tramontata (o resa sterile dalla politica comunitaria) l’attitudine della nostra agricoltura a riprodurre il reddito, la grandissima maggioranza dei genitori meridionali  ha adottato, per i figli, un’ottica tipicamente proletaria: quella di chi ha in sé stesso, nel suo corpo, nelle sue braccia e nel suo cervello l’unica merce da vendere. Al Sud, sempre più raramente si tratta di un lavoro indipendente. La maggior parte dei giovani va a scuola per diventare un laureato. E da laureato, un impiegato dello Stato. I più non ce la fanno a laurearsi. Rimasti a mezza strada, ridimensionano la loro attesa, ma sempre come impiegati dello Stato. Infatti, la delusione della famiglia, sicuramente cocente sul lato del prestigio, e quella non minore del giovane, a proposito del giudizio di sé stesso e sulle proprie capacità, fino a qualche tempo fa, era ammorbidita dal fatto che l’impiego pubblico assicurava al giovane non laureato un trattamento economico  non molto diverso da quello di un laureato.  Chi  entrava nei ranghi del pubblico impiego era sicuramente un lavoratore dipendente, ma  socialmente, giuridicamente ed economicamente garantito. I genitori organizzavano le risorse economiche familiari in vista di tale approdo e guidavano il figlio ad attrezzarsi culturalmente nel modo richiesto. 

Un qualunque corso di studi, ma in particolar modo un corso di studi universitari – indipendentemente dal risultato  positivo o negativo -  ieri era costoso e oggi lo è di più. Le risorse familiari sono distratte da un diverso investimento e consumate a favore di quel progetto. Spesso sull’altare di una laurea è necessario sacrificare un bene ereditato, sterizzando una risorsa formatasi nel corso di parecchie generazioni. Ma, ultimamente, le prospettive si sono rovesciate, senza che la classe politica, che reggeva lo Stato e gestiva le pubbliche risorse, ammonisse le famiglie circa il mutamento di rotta. Il pubblico impiego non è più la valvola di sfogo di una classe che è scesa dalla rendita al lavoro dipendente o che, lasciata la terra, cerca attraverso l’impiego pubblico l’ascesa sociale. Il gregge meridionale continua il suo fatela andare e la luna in cielo resta a guardare. D’altra parte il Sud non offre alternative. Professore o bidello, medico o infermiere, segretario comunale o netturbino, ieri il figlio mangiava, metteva su casa, generava a sua volta figli. Oggi non più.  E’ sopraggiunto il festival liberal-liberalista: ognuno è padrone di scommettere sul proprio avvenire e i cocci sono suoi. Un giovane che sta cinque o dieci anni all’università, per altrettanto tempo non viene contato fra i disoccupati. Inoltre, la folla degli universitari, benché senza avvenire, rappresenta una bella rendita per le città che sono sedi di grandi atenei. Roma, Pisa, Siena, Firenze, Bologna, Pavia fanno a gara per risucchiare rette, pigioni,  panini imbottiti con pessima mortadella e biglietti tranviari, dai proletari, disoccupati in fieri, o se vogliamo, omerici accattoni. 

I buffoni della politica sono in scena. La nave affonda, e loro, come il “Pianista” del film,  continuano a pestare i soliti tasti. Le famiglie hanno capito che il rifugio si è fatto stretto, ma su qual altro traguardo puntare? I padri e le madri tremano, ma continuano a spronare il figlio perché raggiunga il chimerico traguardo di forza-lavoro dello Stato magnanimo. 

Sono lontani i tempi in cui le popolazioni meridionali entravano prepotentemente sulla scena politica combattendo i francesi e i padani invasori, e le sciamberghe paesane che funzionavano da quinta colonna del nemico. Degli antichi briganti, ancorché vinti, massacrati, sterminati, deportati, immiseriti, sicuramente eroici attori, patrioti di un paese libero e autocentrato, non è rimasto più niente, tranne l’antistato mafioso. Anche l’alternativa  o emigranti o briganti è evaporata nei fumi della toscopadanità trionfante. 

Abbiamo tradito i nostri figli per viltà politica. Quando la corsa alle svalutazioni competitive, imposta dalla Fiat & C. ai governi cosiddetti nazionali, giunse al capolinea,  Ciampi accettò il diktat tedesco e svalutò la lira per l’ultima volta. Dopo di che è salita in cielo la stella Bassanini. Le pubbliche assunzioni sono state  condannate come un lusso che il popolo leghista, lavoratore e produttore, non poteva più permettere a degli incalliti dissipatori di pubbliche risorse, ai figli degli invocati Etna e Vesuvio. Tutto alle banche di Milano, Torino e Pascoli Toscani. Le banche si sono gonfiate e gonfiate, come la rana che voleva fare concorrenza al bue. Oggi dirigono il paese in tutto, persino nella riproduzione fallimentare di sogni impiegatizi. 

Nella favola, la rana scoppiò. Ma oggi, forse, le rane hanno lo stomaco d’acciaio.

Nicola Zitara
Aprile 2006



venerdì 24 ottobre 2014

Formia - Archeonight


Al fine di poter garantire un posto nella visita straordinaria che stiamo promuovendo, vi rendiamo partecipi del grande evento che ci sarà a Formia dal 31 ottobre al 2 novembre. Stiamo parlando di Archeonight – le notti dell’archeologia formiana.
Al di là dell’encomiabile calendario di aperture ed eventi, che vedranno coinvolti tutti i beni archeologici, architettonici della città, la nostra associazione Terraurunca ha preparato due appuntamenti davvero degni di nota.
Sabato 1 Novembre
Ore 10, 11 e 12

SOLO su prenotazione scrivendo a info@terraurunca.it

Visita straordinaria gratuita di Villa Caposele, già Villa di Cicerone, già Real Villa dei Borbone delle Due Sicilie. Un bene straordinario, chiuso al pubblico perché dal 1860 di proprietà privata e non visitabile.
Nel pomeriggio, alle ore 17, visita straordinaria della Chiesa di San Remigio, all’interno della Villa dei Duchi di Roscigno e Sacco.




domenica 19 ottobre 2014

Il Prestito di Gaeta


Quando nel 1860 Francesco II lasciò Napoli per non esporre la bellissima Capitale alle brutture della guerra ed ai probabili bombardamenti dei massoni dalle camice rosse, non portò con sé nemmeno gli effetti personali di un certo valore. Al segretario che gli ricordava il legittimo diritto di proprietà sui gioielli e sulla moneta personali egli rispose con fermezza: “Non mi appartiene niente, qua tutto è del popolo”. Un esempio di onestà non solo intellettuale che fa comprendere il vero spessore morale di una dinastia che ha saputo mantenere fino all’ultimo anelito di vita del Regno, quella dignità propria di una cultura antica e gloriosa. 
Ritiratosi a Gaeta per difendere la Patria secondo le regole del Diritto internazionale, Francesco II abbandonato soprattutto da chi si dichiarava alleato (la Francia), fu costretto a emettere dei titoli di Stato che gli consentissero di reggere il devastante assedio piemontese.
Per scrivere la storia occorre ricercare fonti attendibili che, come in un processo, provino o confutino tesi o facciano emergere nuovi argomenti. 
Nel caso del prestito di Gaeta, di cui pochi storici ne fanno menzione, il compatriota Daniele Iadicicco, nell’impegno di recuperare le fonti dirette più importanti della nostra storia, è risuscito ad entrare in possesso di un rarissimo documento di eccezionale importanza ed ha deciso di renderlo pubblico attraverso la nostra Rete.

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LE CARTELLE DEL PRESTITO DI GAETA

Centocinquattaquattro anni fa a Gaeta veniva emanato l’ultimo prestito pubblico del Regno delle Due Sicilie. Il 10 Ottobre 1860 le Reali Finanze di Re Francesco II emanavano un Prestito di Cinque Milioni di Ducati per sostenere le spese necessarie alla difesa del Regno.
Il ricordo al debito pubblico, ieri come oggi, è un fatto del tutto naturale per uno stato sovrano. Ma quando si tratta di atti ufficiali emanati da Gaeta, da Re Francesco II nei mesi dell’assedio tutto cambia. Elementi come questo rappresentano un tassello importante per ripercorrere una delle pagine belliche più raccontate del risorgimento, eppure pronte ancora oggi a far parlare di se per nuove scoperte.
Il 20 ottobre (come da foto del documento) il pegno fu emesso su cartelle con cedole in franchi, che in quel frangente storico era più piazzabile e solido, per la vendita all’estero. Infatti i 5 milioni di ducati, circa 21 milioni di franchi, erano difficilmente piazzabili all’epoca, data la situazione bellica in atto. 
Le “cartelle di Gaeta” sono oggi davvero introvabili, ed è tra i cimeli più rari dell’assedio di Gaeta. Non interessando le banche, queste fedi di credito furono piazzate presumibilmente tra Ambasciatori e Sovrani amici per un sostegno al Sovrano, che si pensa possano poi averle fatte sparire, in quanto elemento di imbarazzo, dato l’epilogo di Gaeta. Gli alti ufficiali o semplici investitori vicini al Re, che avessero sottoscritto tale prestito, non valendo di fatto più nulla con nascere del Regno d’Italia avranno senz’altro fatto sparire le prove di questi infruttuosi investimenti.
Un funzionario dell’epoca appellò questi investimenti "prestito di simpatia politica", essendo davvero rischioso quel tipo di investimento in quell’epoca e un puro atto di sostegno alla causa borbonica. Risulta nondimeno che “nel 1866 ancora innumerevoli erano i titoli rimasti senza collocazione sul mercato... e che .... è pur vero che diversi furono regolarmente emessi, come furono pagate anche le relative cedole. (1) 
Dei capitali non si ha quantificazione e se furono rimborsati, fatto sta che nelle cartelle tutta l’organizzazione delle rendite e relative cedole era demandata a Roma, dove essenzialmente furono gestite e depositate presso la Banca dello Stato Pontificio.
Si tratta di una rendita del 5%, con cedole incassabili da dicembre 1861 sino al 1866. Nella copia (in allegato) è stata ritirata solo la cedola del 1861, quando il Re era già in esilio a Roma.
Nel film “O’ Re”  di Luigi Magni (2), il generale José Borjes parla a Re Francesco II delle Fedi di Credito di Gaeta, con il quale la Regina Maria Sofia l’aveva pagato per la sua spedizione.
Ricerche, articolo e documento originale di 

Daniele E. Iadicicco


(1)   parvapolis.it
(2)   ‘O Re è un film del 1989 scritto e diretto da Luigi Magni, vincitore di un Nastro d'Argento per i migliori costumi (Lucia Mirisola) e di due David di Donatello per il miglior attore non protagonista (Carlo Croccolo) e i migliori costumi.











martedì 7 ottobre 2014

Milano non esiste



ROMA

Con Roberto D’Alessandro, Daniela Stanga, Domenico Franceschelli, Sara Borghi, Riccardo Bergo, Andrea Standardi, Annabella Calabrese. 

Scene e costumi Clara Surro, Regista Assistente Paolo Orlandelli. Ufficio Stampa Maria Fabbricatore.

Dopo 43 anni di lavoro in una fabbrica di Milano, un operaio calabrese sposato a una meneghina doc con cui ha avuto cinque figli, cerca di attuare il suo folle piano: portare tutta la famiglia a vivere in una casa che si è costruito, dopo anni di sacrifici, in riva al mare, nella sua amata Calabria. 

Il suo proposito è destinato però ad infrangersi contro il coriaceo diniego della moglie e dei figli, che non sono forse "milanesi milanesi", ma che sicuramente non sono calabresi. E che comunque di andarsene in Calabria non vogliono proprio saperne. E così, tra una cena e l'altra, si dipana una divertente commedia sull'emigrazione. Si ride, si ride, si ride, ci si commuove e si riflette, come d'altronde accade in tutti gli spettacoli di Roberto D'Alessandro.



Riduzioni per gli amici della Rete previa prenotazione al 389.9443355, oppure  mandando una mail a info@robertodalessandro.it.