giovedì 22 agosto 2013

I custodi del Sangue di San Gennaro


Viola Sarnelli

All’interno del Duomo, in prima fila sulle panche di legno della cappella dedicata al santo patrono, fin dalle prime luci del mattino sono sedute le Parenti, donne che da secoli hanno assunto la funzione di sacerdotesse vicarie del culto di San Gennaro, tramandandosi di generazione in generazione un corpus di preghiere e litanie. 
Mentre le Parenti vanno avanti con i loro rituali arrivano gli alti prelati, vescovo in testa, e le autorità cittadine. Il cardinale prende l’ampolla con il sangue del santo, e dalla cappella si dirige lentamente verso l’altare maggiore del Duomo. Le navate sono strapiene, molta gente è rimasta fuori, sul sagrato. Nel mare di folla che il cardinale attraversa, accompagnato dagli applausi e dal sottofondo dell’organo, spiccano i pennacchi dei due carabinieri in alta uniforme che lo scortano. Dietro all’altare sono schierate due file di sacerdoti biancovestiti. Ai lati, i gonfaloni del comune e della provincia di Napoli.



Il vescovo sale finalmente sull’altare, la musica si ferma: “Fratelli e sorelle, vi do il grande annunzio”. Ai lati del vescovo: l’Abate della Cappella, che poco prima gli aveva consegnato ufficialmente l’ampolla; il Vicepresidente della Deputazione, che custodisce il tesoro e le reliquie del santo. È quest’ultimo a sventolare il fazzoletto bianco, non appena termina la frase del vescovo. È il segnale: partono gli applausi e molti altri fazzoletti cominciano a sventolare sopra la folla nel Duomo. Fuori, sulle scale del sagrato, c’è chi si lamenta per il ritardo: prima l’ampolla col sangue sciolto veniva esposta immancabilmente alle nove del mattino, accolta da un’orchestra sinfonica sistemata proprio lì, di fronte alle scale. Ora i negozi sono tutti chiusi. La città non festeggia più come prima, si lamenta una signora. Quando l’ampolla esce dalla chiesa viene salutata dai fuochi d’artificio, che disegnano linee di fumo bianco nel cielo limpido del mattino.
Ancora oggi, a Napoli, sono bene in vista i lasciti di una tradizione religiosa che mescola spiritualità popolare e cerimonie istituzionali, riti ortodossi e manifestazioni pagane, nonostante le classi alte, nel tempo, abbiano sempre mantenuto il controllo di questo importante patrimonio simbolico. Nel caso del culto di San Gennaro, la sua trasmissione è stata affidata nei secoli a un’istituzione sui generis. La Deputazione, l’organo che amministra le reliquie del santo e le opere d’arte a lui dedicate, non è eletta dal clero né dall’amministrazione comunale. È composta da membri di famiglie nobili napoletane che da cinque secoli si tramandano il compito di tutelare il prezioso tesoro. Dopo la fine della monarchia è stata pienamente riconosciuta dalla repubblica. Una parte del palazzo della Deputazione, adiacente al Duomo, ospita da qualche anno il Museo di San Gennaro, con esposizioni permanenti e temporanee delle opere e dei gioielli dedicati al santo, collezionati dal 1300 in poi.



Le famiglie nobiliari che si alternano nella Deputazione sono le stesse che hanno dominato la città per secoli, disseminandola dei segni del loro potere – dai palazzi ai parchi, dai monumenti alle strade, per non parlare della struttura urbana. Un passato che ancora oggi ha un’influenza tangibile sulla vita quotidiana dei napoletani. I membri della Deputazione sono persone che vivono nel presente, rifuggendo gratuiti anacronismi. Ma il loro presente è anche la naturale prosecuzione di un passato familiare dilatato, che abbraccia generazioni su generazioni, interrotto solo dalle stesse discontinuità che hanno segnato la storia cittadina: dalle invasioni ai terremoti, dalle epidemie alle riforme amministrative, dai Borbone ai Savoia passando – sempre – per la rivoluzione del 1799.
Riccardo Carafa d’Andria, vicepresidente della Deputazione della Real Cappella del Tesoro di San Gennaro.
Da cinquant’anni sono nella Deputazione, continuando in questo una tradizione di famiglia: uno dei cardinali Carafa riportò le ossa di San Gennaro da Montevergine a Napoli, un altro cardinale creò la cappella per contenerle sotto all’altare maggiore del Duomo. Io sono vicepresidente da due anni, ma sono stato uno dei deputati più giovani. Persi mio padre molto presto, e mi offrirono di prendere il suo posto quando andavo ancora all’università. Prima era un incarico meno impegnativo, oggi, con le nuove leggi, bisogna inquadrare il personale, mantenere i rapporti con la soprintendenza, è diventata quasi una società per azioni. La struttura rimane immutata da cinque secoli: i suoi dodici membri rispecchiano l’antica divisione della città in sedili o seggi. Due rappresentano il seggio del popolo, e vengono attribuiti per meriti personali. Attualmente sono il professor Federico Pepe, un illustre personaggio che è stato presidente del Banco di Napoli, e Vittorio Accardi, che ha scritto importanti saggi culturali ma anche cose molto simpatiche sul costume e la cucina napoletana. Gli altri dieci, invece, vengono scelti tra i discendenti delle famiglie nobili che risiedevano nei cinque sedili della città quando la Deputazione fu creata.
I sedili sono un’istituzione antichissima, prima diffusa in tutto il mondo, basti pensare che il processo di Gesù Cristo, nella Bibbia, si tiene nel tribunale di uno dei sedili di Gerusalemme. A Napoli in un primo momento erano sette, poi sei: cinque retti dai nobili e uno dal popolo. Avevano giurisdizione sulle vicende di quartiere, con tanto di tribunale: regolavano l’esazione delle tasse, la manutenzione delle strade. Anche il culto di San Gennaro seguiva questa logica, per cui nella Deputazione c’erano due rappresentanti per ogni sedile, e a turno ogni anno un sedile provvedeva ad amministrare la cappella, alla manutenzione delle opere e all’arricchimento del patrimonio.



Quando il re tornò da Palermo, dopo la rivoluzione del 1799, abolì i sedili dando una struttura più centralizzata per evitare nuovi problemi. Anche per la gestione del Tesoro il re disse: “Provvederò io personalmente a tutto”. Si proclamò presidente della Deputazione, e da quel giorno si parlò di Real Deputazione e di Real Cappella del Tesoro. Successivamente, Murat decise che il rappresentante della città – sindaco, podestà o quello che è – sarebbe diventato di volta in volta il presidente, trasformando l’incarico in una funzione onoraria, com’è ancora oggi.
I deputati vengono riconfermati ogni anno quasi automaticamente, ma di recente ne è venuto a mancare uno tra i nobili, così bisognerà sceglierne uno nuovo. In teoria sono parecchie le famiglie che avrebbero titolo, ma negli ultimi anni qualcuna si è estinta, molte si sono trasferite, e in altri casi bisogna fare i conti con una nobiltà napoletana piuttosto vaga: molto facile che qualcuno si attribuisca un titolo che forse non ha. Tra gli altri compiti, la Deputazione aveva avuto da Ferdinando II anche quello di redigere un libro blu della nobiltà napoletana. Lo stiamo ancora aggiornando, ma è una cosa complessa. I deputati non devono solo provare la discendenza, devono anche aver seguito un certo regime di vita – non so se mi spiego –, essere osservanti e rispettosi della religione. Anticamente, per esempio, non potevano essere deputati quelli che avevano fatto un duello, o quelli che avevano partecipato a moti rivoluzionari. Un equivalente di oggi? Il divorzio, o forse le speculazioni finanziarie.
Il punto è che in tutto quello che succede a Napoli, San Gennaro seppure involontariamente c’entra, ci ha messo la sua partecipazione. Non è giusto togliere importanza al suo culto dandogli quella forma un po’ folcloristica; non si tratta solo di “san Gennà fammi la grazia”, fai il miracolo; che poi tra l’altro si tratta di un prodigio, che a differenza del miracolo è una cosa fine a se stessa, non va ad avvantaggiare nessuno. Lo scioglimento del sangue è solo un segnale che va interpretato, come hanno fatto e continuano a fare gli studiosi. In verità, l’unico re di Napoli è stato San Gennaro. È l’unico napoletano che ha regnato su questa città, tutti gli altri erano stranieri. A questo è dovuto l’amore, la dedizione al santo, che diventa una sorta di punto di appoggio. Il napoletano ha sempre avuto un po’ di timore e diffidenza verso l’autorità – anche quest’idea del Padreterno che sta lassù, che forse non capisce i nostri bisogni –, invece San Gennaro è un intermediario, è il trait d’union tra l’autorità, il Padreterno e la gente comune.




La cosa divertente è come sia nata la cappella del tesoro, che al contrario di quanto si pensa non si chiama così per i gioielli: il tesoro viene inteso nell’accezione del greco antico, come contenitore e non contenuto, ed è la cassaforte angioina che sta dietro l’altare. Dunque, la cappella precedente era in una torre del Duomo che oggi non esiste più, e si sentiva la necessità di rimaneggiarla. Ma era un momento tragico per Napoli, il 1520 e qualcosa, un periodo in cui gravavano sulla città tre grandi disgrazie: la guerra franco-ispanica, un colera ferocissimo e un’eruzione del Vesuvio. La Deputazione allora, a nome del popolo napoletano, fece un vero e proprio atto notarile, presso un notaio che si chiamava De Bossis, un patto con San Gennaro: se tu ti impegni a liberarci da queste tre piaghe noi ci impegniamo a stanziare una cifra – enorme per l’epoca, non so quanti ducati – per erigere una cappella, che sarà la più bella di Napoli. San Gennaro risolse i loro problemi e fu eretta la cappella, che è veramente bella, oltre a essere un luogo di culto è anche un auditorium con un’acustica pregevolissima, che pochi teatri possono vantare.
Dopo la riforma di Murat ci sono stati degli aggiornamenti, ma nessuna modifica nella sostanza. La riunione si chiama ancora “tornata”, si svolge una o due volte al mese nella sede affianco al Duomo. A essere cambiate, naturalmente, sono le istituzioni con cui dobbiamo interloquire: se prima eravamo nominati su decreto regio, con la repubblica ogni nuovo membro va approvato dal presidente – io fui nominato da Einaudi. Siamo un’organizzazione laica che custodisce degli oggetti sacri di grande valore: il sangue del santo ma anche il busto d’argento che contiene le ossa della testa. È l’unica collezione di opere d’arte e gioielli rimasta intatta dal Cinquecento, ed è stata custodita da noi, nonostante a Napoli sia capitato di tutto: bombardamenti, terremoti, rivoluzioni, invasioni di eserciti stranieri… Non si è perso uno spillo. Questo è stato possibile grazie al culto del santo, ma anche grazie alla nostra bravura, se permettete!
Nell’ultima guerra è stato particolarmente avventuroso. Si decise di trasferire i gioielli in un luogo sicuro, e fu scelto malauguratamente Cassino. Nell’abbazia benedettina, dove c’era un commando tedesco che sorvegliava le opere d’arte, furono mandate le casse contenenti i pezzi più preziosi. A differenza degli americani, che non hanno mai rispettato niente – bombardavano, scassavano, rubavano – i tedeschi almeno erano estimatori, anche se di questi tempi è impopolare da dire. Un ufficiale tedesco, nel momento in cui si capì che gli Alleati avevano in mente di distruggere il monastero, prese sia l’abate che il tesoro e li portò in salvo in Vaticano. Finita la guerra ci fu un momento di confusione, per la paura che il tesoro potesse restare definitivamente nelle grotte vaticane. Il cardinale Ascalesi allora cominciò a raccogliere le forze per riportare il tesoro a Napoli: indisse un grande processione, fece cerimonie, appelli, e chiese all’esercito americano una scorta, ma gli americani risposero che avevano cose più serie da fare. Si rivolse quindi all’esercito francese, di stanza a piazza dei Martiri, ma pure quelli gli dissero che non era cosa. Non si sapeva più come fare, finché non comparve un signore, un certo Navarra, detto “il re di Poggioreale” – praticamente il capo della malavita dell’epoca –, il quale disse: “Non vi preoccupate, ci penso io. Avvertite il Vaticano che arrivo, e vi riporto i gioielli a Napoli con i miei uomini”. Ci fu un po’ di indecisione, qualche perplessità, alla fine il cardinale dette il suo benestare, e Navarra partì. Naturalmente telefonarono da Roma non appena lo videro arrivare: “Qua ci stanno dei brutti ceffi tutti armati che vogliono prelevare i gioielli, glieli dobbiamo consegnare?”.
L’unico intoppo fu nel ritorno, perché questo Navarra era a capo della malavita di Napoli, ma non di tutta la Campania; e quelli che oggi si chiamano “casalesi”, a quei tempi chiamati “mazzoni”, avevano tramato di sottrarre il tesoro durante il traghettamento del Volturno, dove non c’era più il ponte. Di questo però Navarra, che sapeva il fatto suo, fu avvertito, e così fece un giro incredibile, passando addirittura da Roccaraso per evitare gli agguati, riuscendo alla fine a riportare i gioielli in città. Ci hanno fatto pure un film, si chiama Il re di Poggioreale.
L’impegno nella Deputazione è una delle tante tradizioni della mia famiglia. Una famiglia controversa: un papa della Controriforma, il terribile Paolo IV; cardinali, condottieri come Oliviero Carafa, proprietario del palazzo che oggi è il Quirinale; nobildonne, come la bellissima Donn’Anna Carafa, che ammalatasi di vaiolo si fece costruire un palazzo sul mare a Posillipo, a quei tempi periferia, e non si mostrò più in pubblico se non velata. O rivoluzionari come Ettore Carafa, uno degli artefici della rivoluzione napoletana del 1799, che oggi si direbbe uno piuttosto di sinistra… Povero Ettore Carafa, fu uno dei pochi a pagare, insieme agli altri nobili giustiziati dopo la rivoluzione: Carafa, Serra, Sanfelice. Decapitati, ma non con la ghigliottina, ritenuto strumento rivoluzionario. Di questi, Carafa era l’unico che aveva fatto la scuola militare, e difatti fece conquiste nella sua terra, ad Andria, che riuscì a togliere ai Borbone.
Il padre di Ettore era primo gentiluomo di corte, e la madre dama di palazzo. Questo rivoluzionario in famiglia creò un certo scompiglio, si cercò anche di chiedere la grazia a un certo punto, ma la regina di Napoli era pur sempre la sorella di Maria Antonietta di Francia, alla quale i rivoluzionari avevano tagliato la testa per poi buttarla in mezzo alla piazza. Sapete che Ettore Carafa chiese di essere giustiziato guardando il boia? Gli disse: “Racconta al tuo re come sa morire un Carafa”. E il re, quando glielo riferirono, commentò: “Il duchino ha voluto fa’ ’o guappo fino all’ultimo!”.
Di Ettore ce n’è stato solo uno dopo il rivoluzionario: mio zio, che dopo la guerra era presidente dell’Agip. Mio nonno scrisse un saggio su Ettore Carafa, ma rimane una figura poco ricordata nella storia della rivoluzione. Meriterebbe di più anche solo per com’è finito, perché si arrese alle truppe borboniche a Pescara solo quando ebbe la parola, poi non mantenuta, che i suoi uomini sarebbero stati lasciati liberi. Eppure, non c’è una targa, non c’è una strada, solo via Conte di Ruvo, che non si capisce neanche che è lui, perchè il titolo di duca d’Andria forse non gli fu mai attribuito, dato che si trovava già in carcere quando morì suo padre, e bisognava che il re desse il suo benestare per il passaggio del titolo.
Come entra tutto questo nella mia vita quotidiana? Mah, sarebbe come chiedere: “Come ci si sente ad avere i capelli castani?”. Quando uno da bambino sente parlare di queste cose poi le trova normali. A volte il mio nome mi ha anche danneggiato. Nel lavoro ho incontrato persone che godevano nel mettermi sotto, chi pensava: “Questo chissà chi si crede di essere”. Non è stato facile, anche perché mi è stato inculcato di mantenere una certa moralità, il fatto che certe cose non si possono fare. C’è questo freno della dignità. Non è il nome, è un certo rispetto per chi ti ha preceduto. Perché quando muori trovi gli antenati lassù che ti dicono: “Che hai fatto?”. Così cerchi di fare in modo di presentarti bene, di poter dire: “Non ho aggiunto, ma non ho neanche tolto”.
Per molti anni ho lavorato all’Alitalia, prima negli uffici in città, poi, per uno di questi problemi di antipatia, fui trasferito in aeroporto. Per fortuna ho sempre trovato dei colleghi simpatici, grandi mangiate insieme e cameratismo, anche perché spesso avevamo dei turni spaventosi, per esempio dalle due di notte alla mattina presto. Con questo tipo di lavoro non puoi avere altri amici, magari ti invitano a cena e tu devi dire: “Vengo da te, però alle dieci vado via”. Perciò alla fine ci si unisce tra quelli che fanno lo stesso lavoro. Anche questa è una vita sui generis, ecco.
In ogni modo non ho mai fatto molta vita mondana, non sono socio di circoli o altro. Naturalmente gli altri nobili napoletani li conosco tutti, ogni tanto è doveroso farsi vedere a qualche ricevimento per mantenere i rapporti, ma mi divertono di più altre cose. Per esempio, sono un membro dell’accademia della cucina, ci riuniamo per scoprire posti dove fanno preparazioni particolari; e poi debbo confessare un altro vizio: ancora oggi, nonostante l’età, faccio qualche gara automobilistica. Da ragazzo ho raggiunto un buon livello nelle gare su strada in salita; prima si faceva la targa Vesuvio, la Sorrento-Sant’Agata. Ora in zona non si corre più, ma al Nord Italia si continua. Ho un’Alfa Romeo preparata. Così, ogni tanto…
Noi della Deputazione siamo visti come vecchi bacucchi legati a tradizioni e valori non più attuali, che vivono in un mondo tutto loro. Ma prima di tutto siamo dei custodi di beni culturali da usare in maniera moderna. È inutile fare anacronismi. 




I Neoborbonici? So’ simpatici, ma che vuol dire “sono borbonico”, è come dire “sono napoleonico”, “tu sei per Pompeo e io per Cesare”. Sono cose fuori dal tempo. Io lo conosco Carlo di Borbone, viene sempre al miracolo di San Gennaro, è nu brav guaglione, ma che vogliamo fare, lo vogliamo fare re di Napoli? Certo, la Deputazione è un lascito di altri tempi, ma tutte le istituzioni lo sono in qualche misura. E, soprattutto, è un’organizzazione che ha dimostrato di essere valida, perché i gioielli stanno ancora là, nonostante la soprintendenza, il comune, il cardinale… Ogni cardinale nuovo che viene a Napoli, per esempio, non ci può pensare che il sangue di San Gennaro lo teniamo noi, e fa cose di pazzi, telefona a Roma per fare sciogliere la Deputazione; perché se, per assurdo, quel giorno decidessimo di non fare uscire il sangue, il cardinale non potrebbe farci niente. Vuoi fare il miracolo di San Gennaro? Fattello tu, io il sangue non lo caccio! Da parte nostra cerchiamo di difenderci dal cardinale dicendo al sindaco: “Vedi che quello ti vuole fregare il posto, vuole mettere un monsignore al posto tuo!”. E tutto si ripete a ogni cardinale che viene, a maggior ragione se il sindaco è di sinistra. Ma se veramente mi metto a tuzzo col sindaco, col cardinale o col prefetto, che faccio, la guerra contro gli Stati Uniti? Bisogna mantenere un equilibrio. Forse nel Cinquecento e nel Seicento le famiglie della Deputazione avevano un certo potere, oggi ci farebbero una risata in faccia.

Fonte: napolimonitor.com