mercoledì 8 agosto 2012

Storia ufficiale e memoria condivisa



Intervista

“Nelle stragi di mafia le maggiori zone 

d’ombra della nostra storia”

Edoardo Petti
Fra le varie zone d’ombra della storia italiana quelle dei rapporti con Cosa Nostra «sono le più diffuse, poiché le stragi dei primi anni Novanta rappresentano il culmine della storia secolare di un legame torbido fra istituzioni nazionali e realtà economico-sociali arretrate» dice a Linkiesta Sergio Luzzatto, professore di Storia moderna all’Università di Torino. «Realtà che avrebbero potuto essere profondamente differenti [...] se il Mezzogiorno avesse dovuto partecipare alla lotta di liberazione con il Nord».

Capaci
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Il Risorgimento e la lotta contro il brigantaggio. La stagione del fascismo e la guerra di liberazione che fu anche scontro mortale fra partigiani e militanti di Salò. Le pagine più oscure e sanguinose dell’esperienza repubblicana, dalle stragi agli anni di piombo. E gli eccidi perpetrati dalla criminalità mafiosa nel drammatico biennio 1992-1993, su cui solo recentemente si cominciano a profilare responsabilità e connivenze di apparati dello Stato. Il nostro Paese sembra soffrire ancora oggi della mancanza di una memoria storica condivisa, o almeno della tensione collettiva verso la ricerca della verità. Tutti i passaggi cruciali e tragici dall’Unità in poi costituiscono solo il terreno di uno scontro fazioso, partigiano e ideologico, spesso funzionale alle polemiche contingenti. Per questa ragione abbiamo pensato di coinvolgere Sergio Luzzatto, professore di Storia moderna all’Università di Torino, nonché studioso della Rivoluzione francese e delle problematiche legate al revisionismo fiorito negli ultimi anni sui temi della Resistenza e dell’antifascismo.


Perché sui capitoli decisivi e più delicati della storia nazionale manca una memoria condivisa?
Esiste una grande confusione riguardo alla categoria della memoria comune. Vorrei operare una distinzione che negli ultimi venti anni è venuta meno. Si tratta della differenza fra storia e ricordo. La storia è condivisa per definizione, anche se non la vogliamo e non la amiamo: è semplicemente “ciò che è accaduto”, come osservava lo studioso tedesco Leopold Ranke, sia pure in modo problematico e sempre da verificare. La memoria comune invece non può e, a mio giudizio, non deve esistere. Pensi al fenomeno della lotta al brigantaggio all’indomani dell’Unità d’Italia, in realtà una guerra civile tra autorità ed esercito sabaudo da una parte e ampi strati del ceto dirigente e della popolazione meridionale dall’altra. Perché i fautori e gli estimatori di un processo di unificazione realizzato anche con la forza dovrebbero maturare una visione identica a quella coltivata da coloro che si sentono aggrediti e depredati da una campagna di occupazione? Così è impensabile che si affermi una prospettiva comune attorno a temi come il “biennio rosso” 1919-1921, la nascita e l’affermazione del fascismo, la guerra di liberazione e il conflitto civile del 1943-1945. 


Però il nostro Paese soffre di una allergia cronica alla ricerca della verità.
È vero. Ma gli ostacoli e le difficoltà che si frappongono alla tensione verso la conoscenza della verità storica dipendono da una ragione tecnica e normativa, che tocca il cuore del nostro mestiere. Accedere ai documenti pubblici oggi è possibile cinquanta anni dopo la loro stesura, e per le carte private ne sono necessari settanta. Una ricerca storiografica completa e approfondita richiede decenni. Riguardo ai fenomeni di criminalità mafiosa e terroristica, agli storici rimangono le attività delle commissioni parlamentari di indagine, che possono conoscere, esaminare, valutare e rendere pubblici gli atti consultati. Ma il nostro lavoro è ben diverso da quello dei magistrati e dei giudici, i quali devono accertare la verità per affermare la giustizia e ripristinare i diritti di chi è stato ingiustamente colpito. Uno storico non ha il compito di distinguere i colpevoli dagli innocenti. 


Gli ostacoli a un rapporto profondo e onesto con la verità non sono di natura politica e ideologica?
Senza dubbio sono presenti freni di questo genere, ma non in misura maggiore rispetto agli altri paesi democratici. Gli Stati Uniti delle menzogne sull’omicidio di J.F.Kennedy, sulle responsabilità per gli attacchi dell’11 Settembre, sull’orrore di Guantanamo, sono stati così diversi dal modo di agire del potere italiano? E lo è stata la Francia repubblicana che per decenni ha rimosso le torture e i crimini perpetrati contro la popolazione dell’Algeria in lotta per l’indipendenza, o l’infamia del regime collaborazionista di Vichy? Le spiegazioni troppo generiche non mi soddisfano mai: e l’immagine di un potere continuamente, pervicacemente e diabolicamente impegnato per impedire la ricerca delle verità mi appare una scorciatoia superficiale. Lo dico perché più volte la magistratura italiana ha cercato di conservare la dignità del proprio mandato, e le commissioni parlamentari di inchiesta hanno saputo operare spesso con estremo rigore. 


Esistono pagine della nostra esperienza comune ancora poco illuminate dall’indagine degli storici, e dunque più esposte alle lacerazioni e deformazioni ideologiche?
Attorno ai nodi più delicati della storia compresa tra l’Unità e la Liberazione dal nazifascismo, le fonti documentali sono divenute sempre più ricche e hanno consentito al lavoro storiografico di raggiungere un livello di maturità e completezza notevole. Per cui oggi, anche con il contributo delle opere ispirate al revisionismo sulla guerra partigiana, possiamo affermare di avere maturato una consapevolezza e “un senso comune storiografico”. Fattore ben diverso dalla memoria condivisa, che implica una lettura interpretativa e una griglia di valori soggettive e parziali. Le aree più opache e meritevoli di indagini scientifiche appartengono proprio alla stagione repubblicana, a causa della disponibilità sporadica e tardiva dei documenti. È un processo lungo e faticoso. Tuttavia, sulle strategie e sui disegni che guidarono le stragi dal 1969 in poi e che ispirarono i crimini del terrorismo nero e rosso, siamo pervenuti a un grado sufficientemente elevato di consapevolezza. 


E sugli eccidi compiuti da Cosa Nostra?
Qui le zone d’ombra sono le più diffuse, poiché le stragi dei primi anni Novanta rappresentano il culmine della storia secolare di un legame torbido fra istituzioni nazionali e realtà economico-sociali arretrate. Realtà che avrebbero potuto essere profondamente differenti, improntate alla capacità di autogoverno e alla maturità civica, se il Mezzogiorno avesse dovuto partecipare alla lotta di liberazione con il Nord. Ritengo comunque che gli storici dei prossimi decenni individueranno nelle stragi del 1992 e nelle loro conseguenze un punto di svolta epocale. Nel quale è contenuto un paradosso: grazie al sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino la criminalità mafiosa divenne una vera emergenza nazionale, ma negli ultimi venti anni le prime pagine dei giornali hanno dedicato spazio ad altro. Sono gli anni in cui Roberto Saviano ha scritto e denunciato l’orrore della camorra e della ‘ndrangheta che però, nello stesso arco di tempo, hanno potuto prosperare sotto traccia. Fino a quando le nuove indagini sui responsabili dell’eccidio di Via D’Amelio e sulla presunta trattativa tra istituzioni e boss hanno aperto scenari inquietanti su quella stagione.
Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/storia-luzzatto-memoria#ixzz22Tk5k5vr

Fonte: LINKIESTA del 3 agosto 2012