mercoledì 30 novembre 2011

IL PARLAMENTO DELLE DUE SICILIE

L’antico consesso rappresentativo delle Terre del Sud, riprende forma e vigore nella Capitale della nostra identità.
Con il comunicato stampa che riportiamo integralmente, si preannuncia la riunione straordinaria che si terrà nei modi e nelle forme tradizionali, dei rappresentanti e dei delegati provenienti dalle antiche provincie.
Come di consueto, vi terremo informati anche attraverso scritti e foto.










martedì 29 novembre 2011

DALLA STORIA - Il primo transatlantico italiano

Continuiamo a trattare ogni singolo primato del Regno delle Due Sicilie, in modo da fornire elementi di studio a tutti coloro che non intendono limitarsi a leggere passivamente l’elenco delle arti, delle industrie, dell’amministrazione pubblica, delle scienze e dell’economia in cui l’antico Stato del Sud primeggiò a livello internazionale.


















domenica 27 novembre 2011

L'OPINIONE - Gustavo Rinaldi


A COSA SERVE
IL REVISIONISMO STORICO
(a proposito di un nuovo Piano per il Sud)

di
Gustavo Rinaldi


In questi ultimi anni, è inconfutabile, che si sia sviluppato un serio e concreto revisionismo storico sulle vicende che hanno determinato l’unità dei vari Stati che erano presenti nella penisola italiana; unità che, è stato ampiamente dimostrato, è stata costruita dal Piemonte, cioè dal Regno di Sardegna, con l’abietta azione diplomatica del conte di Cavour, primo ministro di quello Stato, e con la forza militare dei generali piemontesi, capitanati da Vittorio Emanuele II re di Sardegna, divenuto re di una Italia appena fatta, II e non primo, da sottolineare.
L’abietta azione politica cavouriana e la forza militare piemontese sono state, anche questo è stato ampiamente dimostrato, il braccio armato di un disegno politico e massonico filoguidato dall’Inghilterra e ampiamente sostenuto dalla Francia.
L’unità d’Italia, insomma, è avvenuta per precisa volontà della setta massonica internazionale che voleva, a tutti i costi, la distruzione, l’annientamento dello Stato della Chiesa e magari dello stesso Papa. Setta massonica che si è avvalsa ampiamente di alcuni suoi maggiori rappresentanti dell’epoca, dal primo ministro inglese Lord Palmerston all’Imperatore dei francesi Napoleone III, al primo ministro piemontese Camillo Benso conte di Cavour, al re di Sardegna Vittorio Emanuele II, a Giuseppe Garibaldi e a chissà quanti altri: tutti indiscutibilmente affiliati e alti esponenti di quella setta definita Massoneria.
L’annientamento della Chiesa Cattolica, al fine di far prevalere i principi del Protestantesimo o, addirittura, dell’ateismo presupponeva, ovviamente, lo smantellamento dello Stato pontificio, cioè del potere temporale della Chiesa Cattolica che per tanti secoli aveva assicurato e garantito la sopravvivenza dei principi cattolici, cristiani.
Per cancellare il potere temporale della Chiesa era necessariamente indispensabile cancellare dalla scena politica europea l’unico Stato italiano cattolicissimo, integralista, il Regno delle Due Sicilie, che era per di più confinante con quello pontificio, pronto ad intervenire anche militarmente come aveva già fatto, negli anni precedenti, per salvaguardare l’integrità degli Stati della Chiesa, e che occupava, cosa non da poco, dal punto di vista economico e politico, l’intero bacino del Mediterraneo. Non dimentichiamo che, in quegli anni, si andava ad aprire il canale di Suez e il Mediterraneo riacquistava, così, un ruolo di primo piano nella strategia economica della fine del XIX secolo.
Cancellare dalla scena politica europea il Regno delle Due Sicilie e, magari, contemporaneamente o quasi, debellare definitivamente il potere temporale della Chiesa Cattolica al fine di indebolire, magari definitivamente, anche quello prettamente spirituale: questo fu il disegno della strategia massonica portato avanti dal micidiale complotto internazionale che vide uniti Stati come il Regno di Sardegna, la Francia e l’Inghilterra.
Un nuovo Stato, l’Italia unita, non avrebbe potuto essere protagonista nel Mediterraneo perché, a differenza del Regno delle Due Sicilie, avrebbe dovuto preoccuparsi, prioritariamente, della difesa delle frontiere terrestri prima ancora di quelle marittime e mai o difficilmente, quindi, sarebbe potuto diventare una potenza mediterranea come lo era o lo stava diventando, naturalmente, il Regno duosiciliano a scapito degli interessi dell’Inghilterra che non poteva sopportare, ma neanche tollerare, che un regno, uno Stato più piccolo e comunque meno potente, potesse avere una prevalenza in un’area geografica allora così importante.
Favorire quindi l’unità d’Italia, cancellare dalla scena politica europea uno Stato sovrano come il Regno delle Due Sicilie: si poteva fare, fu fatto, in dispregio di qualsiasi principio democratico scaturito dalla Rivoluzione francese e da tutti i moti rivoluzionari ottocenteschi.
Due intere nazioni, quella napoletana che s’identificava con tutti i popoli abruzzesi, molisani, campani, pugliesi, lucani e calabresi, con i popoli, cioè, dell’ex Regno di Napoli e l’altra, la nazione siciliana, da secoli identificata con l’ex Regno di Sicilia furono sacrificate sull’altare di una presunta, necessaria esigenza di una unità italiana voluta ed ottenuta con l’intrigo politico e col sangue di migliaia, centinaia di migliaia di innocenti.
Oggi si sta squarciando, finalmente, quel velo di ipocrisia. Molti si chiedono, però, anzi sono convinti che non è il caso, comunque, di rimettere in discussione l’unità d’Italia; andava comunque fatta, viene detto, perché necessaria.
Ora, che dei popoli, divisi da una decina di secoli, diversi per lingua (perché se il friulano o il veneto è una lingua, lo è anche il napoletano, il pugliese, il siciliano, ecc.), per tradizioni, per cultura, debbono essere uniti per forza solo per coronare il sogno di un pugno di idealisti, di terroristi si direbbe oggi ( perché la spedizione di Sapri, quella dei Mille non avevano niente di diverso da atti terroristici se non addirittura pirateschi come furono definiti, infatti, da autorevoli e disinteressate personalità straniere, cioè non italiane, dell’epoca), uniti anche contro la propria volontà ampiamente manifestata, nei territori del Regno delle Due Sicilie, da una lotta armata, partigiana, durata dieci lunghi anni, è una gran bestemmia, un’assurdità da qualsiasi punto di vista la si voglia esaminare.
Se i popoli, gli Stati che erano presenti nella penisola italiana a metà dell’800, avessero veramente voluto unirsi politicamente, avrebbero potuto farlo attraverso un graduale ma incruento processo di unificazione che avrebbe portato, presumibilmente, ad una Confederazione di Stati come era stato auspicato da autorevoli studiosi dell’epoca, il Cattaneo in primis, e come fu attuato, poi, praticamente, da un altro popolo, molto più bellicoso di quello italico, il popolo tedesco.
Allora non si venga a dire che questo revisionismo storico non serve a niente. Non si venga a dire che l’unità d’Italia andava fatta come fu fatta altrimenti non sarebbe stata fatta.
Questo revisionismo storico serve e come; a ristabilire la verità, innanzi tutto, per ridare dignità ai popoli del Regno delle Due Sicilie, ai quali fu tolta subito dopo l’avvenuta unità proprio a giustificazione della necessità di essere addivenuti a tale unità. Revisionismo storico che se non può, ovviamente, portare indietro l’orologio della Storia, può, deve contribuire, in maniera determinante, a far sì che, dopo 150 anni, si proceda finalmente a formare un paese unito per fare in modo che si abbiano, e sarebbe ora, italiani, fratelli d’Italia, dalle Alpi alla Sicilia. Come? Ai politici questo compito. Agli  storici la facoltà di proclamare, a voce alta, che l’unità d’Italia non s’era da fare, in primis, che se andava proprio fatta non andava fatta come poi è stata fatta e che, oggi, se la si vuole mantenere ancora unita, è indispensabile ovviare, rimediare, nel più breve tempo possibile, ai grossolani, enormi errori compiuti in 150 anni di vita unitaria, specialmente dal punto di vista dello sviluppo economico e da quello della conoscenza della verità storica: una sola Italia, insomma, e non le due attualmente esistenti.





sabato 26 novembre 2011

IL DIPINTO DEI MARTIRI - I colori del dolore

Quando l’artista Pasquale Nero Galante mi ha chiesto i nomi di 150 martiri, autori della resistenza armata contro l’altra civiltà venuta per rapinare, devastare e sottomettere, non pensavo che arrivasse a tanto: con il suo dipinto riesce a trasmette un coacervo di sensazioni sulle quali domina assoluta e tremenda l’angoscia.
Leggere i nomi dei nostri eroi, seminascosti dal grigiore dell’oblio e dal siero del sangue che a fiumi bagnò la nostra antica Terra, fa male, stringe la gola, incute timore e fa sentire forte la necessità di abbassare lo sguardo in segno di rispetto per quello che hanno subito e per quello che sono riusciti a dare con slancio in difesa della nostra civiltà, in difesa della nostra dignità.
Non sono un critico d’arte, ma quel quadro per me non ha prezzo perché non rappresenta il dolore, è il dolore, un dolore intenso, struggente che viene trasmesso magistralmente attraverso la pittura che avvolge i nomi di una tragedia infinita ed assurda, una tragedia tuttora negata dalla storia.

Cap. Alessandro Romano



"Centocinquanta per Centocinquanta" (2011)
Tecnica mista su tela
cm. 150 x 150



C’è, nell’originalissimo lavoro che Pasquale Nero Galante ha realizzato per l’evento, un che di smaccatamente provocatorio, la cui corretta interpretazione, tuttavia,  può e necessita di essere chiarificata attraverso l’analisi e la rilettura acritica di talune vicende storiche del mezzogiorno preunitario, volutamente neglette dalle fonti o solo parzialmente - e talvolta in maniera del tutto inattendibile e menzognera - confluite nei testi scolastici, oscurate, alterate, private dello spirito di zolla - e non sovversivo, né insurrezionalista - della rivolta all’ennesimo atto di asservimento (retaggio della società feudale), instillando nei neo italiani la persuasione e l’errato convincimento che si era trattato - per i piemontesi colonizzatori  in risalita - di un necessario spargimento di sangue volto a reprimere il costume del brigantaggio, in certi territori del Sud, e non di reazioni a moti legittimi di resistenza, generati dalla necessità di difendere la propria identità, di riscattare i propri patimenti, la propria cultura contadina, da secoli sulla via di affrancarsi dal giogo di una certa aristocrazia agraria (Giuseppe Capitaneo di Modugno, Francesco Palmieri di Monopoli, Francesco Saverio Caravita  duca di Toritto, Cesare de Ilderis di Bitonto, Luca Pomarici Santomasi di Gravina, Nicola Miani di Polignano).
L’opera di Galante omaggia, così - nelle tonalità strinate delle terre d’ombra sulle quali si posa un dripping convulso e lacrimatorio, rievocante il greve contributo di sangue degli insorti - centocinquanta uomini e donne (capozzielli, briganti e brigantesse, partigiani alla macchia, vivandiere, semplici reazionari, soldati delle truppe borboniche, addirittura la Borbone Maria Sofia d’Asburgo, eroina di Gaeta) che tra gli innumerevoli altri offrirono la loro vita alla causa del Meridione, subendo il Risorgimento. Nomi autentici - taluni fantasiosi ma certo non frutto di fantasia - nati da ricerche  di archivio, tra i quali anche Carmine Crocco, detto Donatello, da Rionero, leggendario esarca dei briganti del vulture-melfese, dalla antonomastica vita avventurosa. 
Il mondo intravisto da ogni pittore, analogamente a quello del poeta, è “in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”, e Galante - straordinario interprete del nostro tempo - non cerca inutili consolazioni divagatorie in sortite marginali, ma a differenza del poeta sembra conoscere le vie d’uscita risolutive perché possiede la difficile virtù e la capacità di cercarle. Ed il più difficile coraggio di perseguirle.

Massimo Rossi Ruben



 




 



giovedì 24 novembre 2011

Caffè letterario a Roma

Il prossimo appuntamento con compatrioti ed amici è a Roma, venerdì 25 novembre, alle ore 18.30, su iniziativa della Libreria Aquisgrana, sita in Via Ariosto, n. 21 (zona San Giovanni fermata metrò Manzoni).
Vi aspettiamo.






I Fiumi vesuviani



 Un approfondimento sullo stato degli alvei vesuviani e la loro ragion d’essere. L’intervista a Eugenio Frollo,
autore di numerosi lavori sulle opere idrauliche del Somma/Vesuvio.
di
Ciro Teodonno

La vulgata è ormai questa! Anche se soffia un vento di tramontana siamo sottoposti a una tropicalizzazione del clima e quindi c’amma stà! Ci si deve rassegnare al fatto che se si annega in pieno centro cittadino o ci si ritrova allagati in montagna, lontano da mari, laghi e fiumi, la colpa è solo nostra; o meglio, in assenza di responsabilità, perché l’acclamata fatalità non ne contempla, paradossalmente non resta che un sol colpevole, colui che s’è trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato!
Ad acque ritirate, ma con il fango ancora lì, a seccare al sole, abbiamo deciso di non rassegnarci e di interpellare qualcuno che faccia chiarezza sulla situazione delle opere idrauliche del Somma/Vesuvio, al cui stato d’abbandono è da imputare buona parte dei disastri a valle del Vulcano. Il nostro interlocutore è Eugenio Frollo, architetto e restauratore, nonché autore di numerosi lavori sulle opere idrauliche del Somma e i Regi Lagni, persona dalla profonda conoscenza dei vari sistemi di irreggimentazione della acque sommane e dell’Ager Campanus ma soprattutto, cosa non scontata affatto, amante della sua terra.
«Le opere per la bonifica idrogeologica, che oggi sono quasi del tutto sconosciute, servono per salvare vite umane! Gli ultimi eventi di Genova ma non solo, ci dimostrano la terribile attualità del tema delle acque vesuviane. Quando poi, succedono cose come quelle di Pollena, una decina di giorni fa, si viene a scoprire che quelli che conoscevano meglio questo tema e sapevano anche come risolverlo erano i Borbone. Le loro opere di imbrigliamento le si possono trovare quasi dappertutto, le trovi manomesse, senza manutenzione ma le ritrovi a Sarno, sul Monte Alvano, ne ritrovi tantissime sul Monte Somma e sarebbero anche dei pezzi eccezionali di archeologia idraulica! Anche soltanto da visitare! Perché sono opere meravigliose. Le trovi in Calabria e così via. Questi lagni servono, come servono i Regi Lagni con tutti i loro fossi, controfossi e ramificazioni!».
Ma partiamo dall’inizio, come nascono i lagni?«Dobbiamo risalire a un periodo, l’inizio dell’ottocento, in cui la difesa del suolo e la bonifica delle paludi era vista come un’opera di civiltà! I Borbone, ripeto, avevano capito benissimo come risolvere il problema. È adesso che non lo si capisce! Per molti, la sola cosa importante è il cemento. L’ingegnere Carlo Afán de Rivera girò per tutta l’Italia per conto del governo borbonico, per studiare la situazione dei bacini idrografici e sempre a lui dobbiamo l’attuale suddivisione dei bacini dell’Italia Meridionale.
Le opere vennero intraprese dall’Amministrazione Generale delle Bonificazioni dei Domini Continentali del Regno delle Due Sicilie, nel 1855 ad opera degli ingegneri del Corpo Ponti e Strade, seguendo le indicazioni di Afán de Rivera, ormai scomparso. Nel 1912 le opere furono portate definitivamente a termine sotto la direzione dell’ingegnere del Genio Civile postunitario Carlo Simonetti, che completò le opere borboniche».
Possiamo dire quindi che quelle opere erano sostanzialmente complete e funzionali …«Sì ma è stata poi la mano dell’uomo a mutilarle e offenderle!».
Qual è l’uso che possiamo ancora farne?«L’uso è quello per il quale sono stati creati, l’irregimentazione delle acque meteoriche e delle modeste colate di lava. Così come accadde nel 1906, quando la lava fu contenuta dai canali e in più, l’anno dopo, lo stato cacciò i fondi necessari per riparare i canali. Pronti per altri eventi calamitosi, il problema fu risolto. L’opera di difesa più comune che troviamo sul Somma è la briglia. Di briglie ne esistono sei o sette tipi, da uno a cinque salti ad esempio, affiancate a una vasca e così via; senza scendere troppo nel tecnico, basti sapere che erano sempre individuate nella giusta tipologia rispetto al quel preciso punto, di quel terreno, insomma non erano fatte in serie.
Ma non solo, si attuavano anche interventi di riforestazione, si conosceva già quella che oggi chiamiamo ingegneria naturalistica! Infatti, sui suoli antistanti gli assi idraulici venivano fatte sistemazioni di bonifica montana molto simili a quelle odierne. Oggi invece, con la cementificazione dei suoli aumentano le superfici non drenanti, questo causa una diversa velocità di scorrimento delle acque e fin qui ci arriva anche chi non è un ingegnere idraulico! Questa maggiore velocità causa maggiore erosione, che dall’oggi al domani può creare i danni che facilmente immaginiamo».
Il passo alla politica è breve …
«Certo! Ci sono alcune correnti politiche che non ammettono proprio questo tipo di tutela dell’ambiente, non è nella loro cultura, che è quella di costruire col cemento! Altri invece dicono no! La difesa del suolo è la prima opera pubblica e che viene prima della TAV e del ponte sullo Stretto! Mi si darà poi del nostalgico quando dico che queste opere andrebbero fatte con la pietra vesuviana. Studi approfonditi hanno acclarato che il cemento, in queste situazioni, non serve a niente è come un corpo estraneo. Le opere in pietra lavica hanno invece una vita, anche rispetto all’evento meteorico; in parole povere, una briglia, se viene seppellita dal fango, un tecnico può anche ricalcolarne la posizione, a quota superiore».
Qual è lo stato attuale del Vesuviano?«L’incuria su queste opere è piombata negli anni settanta! Non solo con la pressione edilizia, ma anche con i passaggi di competenza! A un certo punto il Genio Civile regionale non sapendo come intervenire, lo ha fatto con il cemento armato. Ci vogliono tecnici competenti in queste cose … comunque, con gli anni settanta, arrivano anche i tombamenti! I tratti di alveo che attraversano i centri abitati vengono ricoperti per creare delle strade. A Pollena Trocchia, Massa di Somma, Cercola, la sezione idraulica del canale sotterraneo è inferiore a quella del canale in superficie, a cielo aperto.
Me la spiegate la logica? Conosco personalmente gli ingegneri che hanno progettato questi tombamenti, ho più di una volta polemizzato con loro, mi hanno detto che quello era pane, nel senso che gli venivano commissionate quelle opere e loro le progettavano per la parcella».
E con la coscienza come stanno messi?«Con la coscienza? Non bene, gliel’ho chiesto».
Almeno ne hanno una!«In passato mi sono rivolto anche alla sovrintendenza, che mi ha consigliato di convincere i sindaci a “stombare”… sì e vaglielo a dire a un sindaco: rinuncia a una strada e porta un alveo a cielo aperto!».
Perché, cos’ha di particolare un alveo a cielo aperto?«È più sicuro, un alveo intombato può invece essere occluso facilmente. Poi c’è l’esondazione, quando si crea un tappo, tutto quello che sta a monte esce fuori dagli argini. Ma c’è anche l’effetto proiettile. Nel momento in cui il tappo viene via per la pressione, il canale coperto spara dei proiettili verso la popolazione della fascia pedemontana. Andai dal sindaco di Pollena Trocchia, l’attuale, per proporgli una serie di opere, tra cui anche il museo della bonifica vesuviana, mi rispose: “ma che dobbiamo fare dei canali, sono in disuso!” Come dire: ora non c’è l’emergenza; il canale non serve! Allora mando a casa tutti quelli del 118, perché sto bene di salute! Ma quando ne avrò bisogno non ci sarà nessuno. “Ho cose più importanti da fare, c’ho le scuole, il cimitero …”».
Come si arriva ai nostri giorni?«Alla fine degli anni novanta, un gruppo di tecnici, di cui mi onoro di aver fatto parte, ragiona su queste strutture e parallelamente si preoccupa di creare lavoro per quei lavoratori in mobilità e li si mette a ripulire questi canali».
Dal Genio Civile fino agli anni novanta chi gestiva la rete degli alvei?«Teoricamente il Consorzio di Bonifica. Un’emanazione della regione (Esiste anche l’Autorità di Bacino che ha però solo compiti di studio e programmazione, ndr.). Si chiama consorzio perché costituito dai proprietari dei suoli, appunto consorziati tra loro per amministrare i suoli e le irrigazioni. Non ha senso però che il consorzio lo faccia un ente sovraordinato come la Regione, per farti pagare lo stesso tributo. I consorzi divengono dei veri e propri enti pubblici. Ed è ancora meno giusto quando da quel tributo non ne viene fuori nessun beneficio cioè non viene fatta la manutenzione delle opere idrauliche».
I consorzi di bonifica si affidavano poi a delle società speciali per i lavori di manutenzione come in passato la RECAM …«C’è stato solo un periodo nel quale hanno delegato, perché i consorzi hanno le loro squadre di operai, anche se pochi e malpagati e che intervengono solo in caso di necessità».
Qual è la situazione attuale del consorzio di bonifica?«Sono in attesa di un nuovo consiglio di amministrazione da un bel po’ di tempo».
Sono praticamente paralizzati …«Allo stato attuale sì!».
Praticamente da un bel po’, visto il diffuso abusivismo negli alvei …«Un alveo può avere un’occupazione naturale, occupato da tutto ciò che normalmente deve percorrerlo e da un’occupazione antropica del tutto innaturale, la casetta abusiva, il deposito di materiale tossico. E pensare che si valutava un uso escursionistico di questi canali!».
(Fonte foto: Rete Internet)


Fonte ilmediano.it del 12.11.11

mercoledì 23 novembre 2011

L'OPINIONE - David Gilmour


La fine dell'Italia

secondo Foreign Policy

di
David Gilmour

Traduzione di Enrico De Simone



Perché dovremmo stupirci se l’Italia cade a pezzi? Con decine di dialetti e un’unificazione fatta in fretta e furia, si potrebbe persino dubitare che sia davvero una nazione. L’Italia sta cadendo a pezzi, politicamente ed economicamente. Di fronte a una gravissima crisi del debito e alle defezioni dalla sua maggioranza parlamentare, il primo ministro Silvio Berlusconi, la figura politica che più ha dominato il panorama politico romano dai tempi di Mussolini, la scorsa settimana ha rassegnato le dimissioni. Ma i problemi del Paese vanno oltre la scadente prova politica del Cavaliere, oltre i suoi celebri peccatucci: le loro radici affondano nella fragilità del sentimento di unità nazionale, un mito nel quale pochi italiani, oggi, mostrano di credere.
La frettolosa, forzata unificazione del XIX Secolo, cui nel XX Secolo seguirono il fascismo e la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, lasciò il paese privo del sentimento di nazionalità. Ciò non sarebbe stato di grande importanza se lo stato post-fascista avesse avuto maggior successo, non solo nella gestione dell’economia, ma anche nel proporsi come un’entità in cui i cittadini potessero identificarsi, e avere fiducia. Ma negli ultimi sessant’anni, la Repubblica italiana ha fallito nel fornire un governo funzionante, nel combattere la corruzione, nel proteggere l’ambiente, persino dal proteggere i suoi cittadini dalla violenza di Mafia, Camorra e altre organizzazioni criminali. Adesso, nonostante i suoi intrinseci punti di forza, la Repubblica si è mostrata incapace di gestire l’economia.
Ci sono voluti quattro secoli perché i sette regni dell’Inghilterra anglo-sassone diventassero, alla fine, uno solo, nel Decimo secolo. Ma quasi tutta l’Italia è stata riunita in meno di due anni, tra l’estate del 1859 e la primavera del 1861. Il Papa venne spogliato di quasi tutti i suoi domini, la dinastia dei Borbone venne esiliata da Napoli, i duchi dell’Italia centrale persero i loro troni e il re del Piemonte divenne re d’Italia. In quel momento tale rapidità venne vista come un miracolo, il risultato di un magnifico insorgere patriottico da parte di un popolo che anelava ad unirsi e cacciare l’oppressore straniero e i suoi servi. Va detto, però, che il movimento patriottico che ottenne l’unificazione dell’Italia era numericamente piccolo, formato per lo più da giovani della classe media settentrionale; e non aveva alcuna possibilità di successo senza un intervento dall’esterno.
Fu l’esercito francese a cacciare gli austriaci dalla Lombardia, nel 1859; fu una vittoria della Prussia a far sì che l’Italia, nel 1866, potesse annettersi Venezia. Nel resto del paese, le guerre di Risorgimento non furono tanto una lotta per l’unità e la liberazione, quanto una successione di guerre civili. Giuseppe Garibaldi, che si era fatto un nome come soldato combattendo in Sudamerica, si batté eroicamente con le sue camicie rosse in Sicilia e a Napoli nel 1860, ma la sua campagna fu, in ultima analisi, la conquista del Sud da parte del Nord, seguita dall’imposizione delle leggi del Nord in luogo di quelle dello stato meridionale che allora esisteva, il Regno delle due Sicilie. Napoli non si sentì affatto “liberata”, soltanto ottanta napoletani si offrirono volontari per le camicie rosse garibaldine e la sua gente non tardò ad amareggiarsi del fatto che la città aveva scambiato quello che da seicento anni era il suo rango “capitale del regno” con quello di località di provincia. Ancor oggi il suo status è minore, nel quadro di un Pil del Mezzogiorno pari a meno della metà del settentrione.
L’Italia unita ha saltato la fase, normale e faticosa, di “costruzione della nazione”, diventando subito uno stato centralista ben poco disposto a fare concessioni ai diversi localismi. Si faccia il paragone con la Germania: dopo l’unificazione del 1871, il nuovo Reich era governato da una confederazione che includeva quattro regni e cinque granducati. La penisola italiana, al contrario, venne conquistata in nome del re piemontese Vittorio Emanuele II e rimase una versione ingrandita di quel regno, esibendo lo stesso monarca, la stessa capitale (Torino), persino la stessa Costituzione. L’applicazione delle leggi piemontesi su tutta la penisola fece sentire i suoi abitanti più come popolazioni conquistate che come popolo liberato. Il sud venne attraversato da una serie di violente rivolte, tutte sanguinosamente represse.
Le diversità che attraversano l’Italia hanno una storia antica, che non può essere messa da pare in pochi anni. Nel Quinto secolo dopo Cristo, gli antichi greci parlavano la stessa lingua e si consideravano greci; a quei tempi, la popolazione dell’Italia parlava 40 lingue diverse e non aveva alcun senso di identità comune. Tali diversità divennero ancor più pronunciate alla caduta dell’Impero romano, con gli italiani che si ritrovarono a vivere per secoli in comuni medievali, città-stato e ducati rinascimentali. Questi sentimenti di campanile sono vivi ancor oggi: se, per esempio, chiedete a un abitante di Pisa: “di dove sei”?, lui dirà “sono di Pisa” o eventualmente “sono toscano” ancor prima di dire “sono italiano” o magari “europeo”. Come scherzosamente ammettono molti italiani, il loro sentimento di appartenenza alla nazione emerge soltanto durante la Coppa del mondo di calcio, e solo se gli “azzurri” giocano bene.
La lingua è un altro indicatore delle divisioni italiane. Il celebre linguista Tullio De Mauro ha stimato che all’epoca dell’unificazione, solo il 2,5% della popolazione parlasse l’italiano, vale a dire, l’idioma sviluppatosi a partire dal fiorentino vernacolare con cui scrivevano Dante e Boccaccio. Anche se si trattasse di un’esagerazione e quella percentuale fosse pari a dieci, ancora così si avrebbe che il 90 per cento degli abitanti dell’Italia parlavano lingue o dialetti regionali incomprensibili alle altre genti della penisola. Persino il re Vittorio Emanuele parlava in dialetto piemontese quando non parlava quella che era la sua lingua ufficiale, il francese.
Nell’euforia tra il 1859 e il 1861, pochi politici italiani si soffermarono a considerare le complicazioni derivanti dall’unire genti così diverse. Uno che lo fece fu lo statista piemontese Massimo d’Azeglio, che subito dopo l’unificazione avrebbe detto: “Ora che è fatta l’Italia, dobbiamo fare gli italiani”. Purtroppo, la via che più di ogni altra venne seguita per “fare gli italiani” fu quella di sforzarsi di fare dell’Italia una grande potenza, una potenza in grado di competere militarmente con Francia, Germania, Austria-Ungheria. Un tentativo condannato al fallimento, perché la nuova nazione era assai più povera delle sue rivali.
Per un periodo di novant’anni, culminato con la caduta di Mussolini, la classe dirigente italiana decise di costruire il senso di nazionalità che ancora mancava trasformando gli italiani in conquistatori e colonialisti. Vennero spese grandi somme di denaro per finanziare spedizioni in Africa, spesso risoltesi in disastri; come ad Adua, nel 1896, dove un’armata italiana venne distrutta dalle forze etiopiche che uccisero in un giorno solo più italiani di quanti ne morirono in tutte le guerre risorgimentali. Sebbene il paese non avesse nemici in Europa e nessun bisogno di combattere in nessuna delle due guerre mondiali, l’Italia entrò in entrambi i conflitti, in tutti e due i casi nove mesi dopo lo scoppio delle ostilità con il governo che credeva di aver individuato il vincitore al quale chiedere, in premio, annessioni territoriali. L’errore di calcolo fatto ad Mussolini e la sua successiva caduta distrussero a un tempo, in Italia, il militarismo e l’idea di nazionalità.
Nei cinquant’anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale il paese fu dominato dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista. Questi partiti, che ricevevano direttive, rispettivamente, dal Vaticano e dal Cremlino, non avevano alcun interesse nell’instillare un nuovo spirito di nazionalità, che prendesse il posto di quello naufragato nei disastri precedenti. L’Italia del dopoguerra è stata, per molti versi, una storia di successo. Con uno dei ratei di crescita maggiori del mondo, si segnalò tra i paesi innovatori in campi pacifici e produttivi come cinema, moda, design industriale. Ma anche quei trionfi furono settoriali, e nessun governo è stato mai in grado di colmare il gap esistente tra nord e sud.
I fallimenti politici ed economici del Governo non sono l’unica causa della malattia che oggi minaccia la stessa sopravvivenza dell’Italia. Alcuni difetti strutturali del Paese sono intrinseci alle circostanze della sua nascita. La Lega Nord, il terzo maggior partito politico italiano, secondo cui il 150° anniversario dell’unità d’Italia avrebbe dovuto essere materia più di lutto che di celebrazioni, non è soltanto una strana aberrazione. Il suo atteggiamento verso il sud, per quanto razzista e xenofobo, dimostra che l’Italia, in realtà, non si sente un paese unito.
Il grande politico liberale Giustino Fortunato era solito citare suo padre, secondo cui “l’unificazione dell’Italia è stata un crimine contro la storia e la geografia”. Credeva che la forza e la civiltà della penisola risiedesse in una dimensione regionale, e che un governo centrale non avrebbe mai funzionato. Ogni giorno che passa, le sue idee appaiono sempre più esatte. Se per l’Italia c’è ancora un futuro come nazione unitaria dopo questa crisi, dovrà riconoscere la realtà di una nascita travagliata e costruire un nuovo modello politico che tenga conto del suo intrinseco, millenario regionalismo, magari non un mosaico di repubbliche comunali, ducati arroccati sulle montagne e principati; ma almeno uno stato federale, che rifletta le caratteristiche principali del suo passato.





martedì 22 novembre 2011

La Salerno - Reggio Calabria: un'autostrada non finita per una storia infinita






Questa estate, il 16 agosto, mi trovavo bloccato da ore sulla Salerno - Reggio Calabria, tra Lauria Nord e Lagonegro Nord: ciò che mi indignò fino a sentirmi male, non fu il caldo torrido e l'incertezza dell'arrivo, ma il sentire dalla radio nazionale che su quel tratto di autostrada tutto era nella normalità. La rabbia si attenuò quando il compagno di sventura della macchina che mi precedeva mi fece notare che, effettivamente, non c'era niente di anomalo che il transito fosse bloccato. Così era da sempre. Viceversa sarebbe stata un'anomalia se il tutto fosse andato per il meglio, cosa che puntualmente sarebbe stata segnalata dalla radio nazionale che, meravigliata, avrebbe annunciato " l'incredibile normalità " di quell'infelice tratto di autostrada.
Della storia di questa antica piaga tutta italiana molti ne hanno perso la memoria, pertanto appare estremamente interessante quanto ci racconta Stefano Perri.
Buona lettura.

Cap. Alessandro Romano




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Storia della Salerno - Reggio Calabria.
Quando il Sole si fermò a Napoli.
Da li in poi, il buio.

 di

Stefano Perri


Siamo nel 1956. Nell’Italia del dopoguerra e del boom economico. Il Paese diviso tra la necessità di leccarsi le ferite di un conflitto che era stato capace di mettere completamente in ginocchio l’economia nazionale e l’opportunità di guardare al futuro con la fiducia riposta in una nuova era di pace e prosperità. La costruzione di nuove infrastrutture e l’avvio di lavori pubblici è l’unica via per rimettere in moto un’economia che senza le commesse statali non riesce a confrontarsi con un mercato interno dai consumi bassissimi. C’è da ricostruire non solo l’identità sociale del Paese ma anche metterlo nelle condizioni di competere con la nuova prospettiva economica globale che la guerra ha portato con se.
L’autostrada del Sole ha il compito di unificare il Paese. Ancora più di quanto aveva fatto nel secolo precedente la mitica strada ferrata che aveva rappresentato per tutte le nazioni europee un motore di crescita economica e sociale di straorinaria portata.
Il Sole deve collegare il Nord industrializzato e civile all’estremo Sud dello Stivale e illuminare il cammino dello sviluppo e del progresso sociale. L’asse dello sviluppo parte da Milano, considerata la Capitale economica, e passare per Bologna, Firenze, Roma e Napoli. Inizialmente il terminale dell’infrastruttura doveva essere la Calabria, l’estrema punta dello Stivale, fino ad allora considerata la terza isola, proprio per la scarsità di collegamenti con il resto del Paese.
Il provvedimento porta la firma di Giuseppe Romita, Ministro socialdemocratico piemontese, il piccolo Napoleone delle strade italiane, convinto sostenitore delle opere pubbliche alle quali diede un enorme impulso verso la metà degli anni ‘50, con un impianto però prettamente settentrionalista. I lavori hanno inizio entro l’anno. La concessionaria guidata dall’Iri, grazie ad un primo contributo statale a fondo perduto del 36% e un successivo contributo diluito in annualità, completa in 8 anni il tratto da Milano a Napoli. Siamo nel 1964 e il 4 ottobre il Presidente del Consiglio Aldo Moro inaugura l’Autostrada che dovrà rappresentare un ponte di collegamento tra il Nord e il Sud del Paese. Sponsor principali di quella infrastruttura furono l’Eni di Enrico Mattei e la Fiat di Giovanni Agnelli. Chiarissime sono fin da subito le ragioni che spingono lo Stato ad accollarsi una spesa del genere per l’ammodernamento infrastrutturale della rete stradale. Il sogno era quello della rivoluzione Fordista d’oltreoceano che fino ad allora in Italia non era decollata a causa dei bassissimi consumi interni. Meno chiare sono invece le ragioni per le quali l’Autostrada non raggiunge da subito l’estremo sud del Paese. Il Sole si ferma nella città che fu la Capitale del Regno delle due Sicilie. Da lì in poi il buio.
Sul finire degli anni ’50 l’intervento dell’Iri da un nuovo impulso al piano nazionale di viabilità costruito dal Ministro Romita. Come era stato per l’epoca delle strade ferrate, la strada e l’automobile vengono indicate come il traino di sviluppo per una nuova rivoluzione dei trasporti che porta con se benefici per produttori e consumatori.
 
Nel 1961, con la legge 729, si affida all’Anas la costruzione dell’Autostrada Salerno - Reggio Calabria, declassificata nel piano dell’Iri (e quindi per questo rifiutata) tra le cosiddette autostrade aperte, quelle cioè che non potevano essere soggette ad un pedaggio per le particolari condizioni di sottosviluppo dei territori attraversati. La realizzazione dell’opera è prevista a totale carico dello Stato e l’Anas è autorizzato a contrarre mutui per 180 miliardi, pari al costo inizialmente stimato dell’infrastruttura. Il sistema autostradale del centro nord, sottoposto a pedaggio e gestito dall’Iri, era percepito come un servizio che poiché era pagato direttamente dei cittadini e doveva essere sempre garantito in maniera efficiente. Al contrario l’Autostrada da Salerno a Reggio Calabria di competenza Anas viene percepita come una sorta di “beneficio” a fondo perduto dello Stato verso i territori sottosviluppati del meridione e quindi con minori aspettative di sviluppo. Nella pratica una sorta di Autostrada dei poveri, un’infrastruttura di serie B.
Inoltre mentre l’Iri si afferma come gestore del sistema autostradale del centro nord ed ha modo di investire sotto la piena e sicura protezione dello Stato in un settore come quello delle comunicazioni che diventa ogni anno più vasto e redditizio (navigazione marittima e area, oltre alle telecomunicazioni) l’Anas si trova di fronte la sua prima sfida in termini di costruzione di un tracciato autostradale, in un territorio peraltro orograficamente molto complesso e sul quale non esistono studi troppo approfonditi. Gli stessi documenti fino ad allora prodotti sono incerti perfino sulla lunghezza complessiva del futuro tracciato, inizialmente disegnato lungo la linea di costa, che era indicato in 420, 440, 470 o anche 499 Kilometri.
La frattura tra Iri e Anas interrompe non solo la sinergia in fase di costruzione tra la Società Autostrade e l’Anas, che si era realizzata per l’Autostrada del Sole da Milano a Napoli, ma di fatto divide l’Italia a metà. A determinare la rottura è non solo la natura delle concessioni che individuavano delle sfere di competenza diverse ed in parte contrapposte, ma anche la nuova fase politica uscita dalla mentalità tecnocratica degli anni del Centrismo di De Gasperi e diretta verso l’era del centro-sinistra e la relativa conquista partitica degli enti pubblici.
Negli anni a seguire il sistema autostradale del centro nord, gestito da Società Autostrade per conto dell’Iri, cresce fino a far raggiungere all’Italia il primo posto in Europa quanto a dotazione autostradale. Nel contempo il tasso di crescita della motorizzazione è diventato maggiore nel Meridione rispetto al Centro-Nord.
Ma i tecnici, i progettisti e le imprese che hanno il compito di realizzare la Salerno-Reggio Calabria si trovano di fronte uno scenario ben diverso da quello prospettato. La richiesta di costruzione dell’Autostrada lascia il vecchio tracciato litoraneo, dove figurava da decenni seppur solo come un tratto di penna sulla carta, per addentrarsi nel cuore della montagna calabrese, abbarbicata sulle pendici del massiccio della Sila, orograficamente molto complessa e spesso priva di strade per il trasporto delle macchine e dei materiali nei cantieri. A cogliere la sfida è l’ingegnere Scaramuzzi che segue l’intera realizzazione dell’opera dapprima in Calabria e poi come ispettore Anas. Al suo fianco un pool di giovani ingegneri di notevole levatura come Luigi Oliva, Ennio Matera e Mariano Del Papa.
La prima pietra viene posta nel 1962 dal Presidente del Consiglio Amintore Fanfani che promette addirittura il completamento dell’opera entro due anni. Come per la Milano Napoli i primi appalti vengono varati ai due estremi, iniziale e finale: nella zona di Salerno sono affidati ad imprese emiliane, a Reggio a imprese romane, mentre il tratto centrale, che passa nei pressi della città Cosenza, viene diviso tra imprese emiliane e romane.
Nel tempo intercorso tra l’approvazione del progetto di massima nel dicembre 1961 e l’effettivo inizio dei lavori nel gennaio 1962 la sfida dell’Autostrada si trasforma dunque in una sorta di sfida alla natura. L’autostrada abbandona il progetto originario e sale dalla litoranea tirrenica all’aspra montagna interna, allungando il suo percorso di 40 km, entrando per 22 km in galleria e dispiegandosi per 45 km su viadotti. Una vera e propria scommessa dell’ingegneria contemporanea che viene qualificata come “una delle opere più imponenti dell’intera rete viaria italiana”. I migliori ingegneri impegnati nel settore delle comunicazioni, le maggiori imprese che hanno già preso parte ai lavori della Milano - Napoli, tutti i mezzi ed i materiali più all’avanguardia vengono impiegati per realizzare quel percorso impossibile che l’autostrada traccia tra le impervie montagne silane. E a testimoniare le difficoltà incontrate dai progettisti dell’epoca esistono ancora oggi gli enormi viadotti (Italia, Stupino, Rago, Coscile, Salso, Jannello, Caffaro) e le lunghe gallerie (addirittura il 30% dell’intero tracciato), veri e propri capolavori di ingegneria degli anni 60. Tantissimi sono gli operai che perdono la vita durante i lavori cadendo dalle alte campate di ponti e viadotti.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare scarsa in questa prima fase è l’influenza della ndrangheta sulla costruzione dell’autostrada. Le cosche, perlopiù a carattere locale, sono interessate al massimo ai subappalti del movimento terra, ma in zone ancora limitate del territorio calabrese. Nei fatti la difficoltà maggiore è individuata proprio nel tracciato, una sorta di saliscendi tra mare e monti che si dispiega tra viadotti e gallerie che già nelle previsioni originali rallentano notevolmente il traffico dei veicoli in transito.
Abbastanza chiaro è il motivo per il quale viene’ scelto proprio il tracciato, tra i tanti possibili, che attraversava la Calabria passando dal massiccio della Sila. L’obiettivo è quello di includervi il territorio urbano di Cosenza, città dalla quale provengono due soggetti che hanno grande influenza sui Governi di quegli anni: il democristiano Riccardo Misasi e soprattutto il socialista Giacomo Mancini, deputato e segretario regionale del Psi calabrese, Ministro della Sanità prima e poi dei Lavori Pubblici, nonché Presidente dell’Anas e successivamente Ministro per il Mezzogiorno. Le ragioni più forti sostenute dai cosentini, riuniti in un Comitato Provinciale per il proseguimento dell’Autostrada del Sole, si fondano essenzialmente su concezioni di stampo meridionalista che vedono nella costruzione dell’autostrada un’occasione di riscatto per i territori più depressi. Essi sostengono che il tracciato interno avrebbe favorito la mobilità e lo sviluppo di entrambi i versanti e si sarebbe potuto coniugare con una direttrice viaria interregionale che dalla Puglia alla Sicilia metteva in comunicazione tutti i territori pianeggianti (Tavoliere, Metapontino, Materano, Sibaritide e Piana di Sant’Eufemia) fino a formare una sorta di “piccola Val Padana del Sud”.
Le opposizioni e le critiche a questo tipo di impostazione sono deboli, frammentarie e nella maggior parte dei casi anch’esse dettate da ragioni campaniliste. Sorprende ancora, a distanza di 50 anni, l’incredibile passività  tenuta da una Regione come la Sicilia che godendo di uno sviluppo economico e di un’incidenza politica nettamente superiori a quelli della Calabria avrebbe potuto facilmente far prevalere le sue ragioni, propendendo per un tracciato più veloce e diretto come quello sulla litoranea tirrenica che avrebbe certamente favorito un collegamento più immediato verso l’industria del nord. Un basso profilo, quello siciliano, solo in parte spiegabile con la convinzione che la costruzione di una direttrice autostradale verso il profondo sud, seppure su un tracciato montano a velocità ridotta e senza corsia d’emergenza, avrebbe in ogni caso agevolato le comunicazioni verso la Sicilia e che il nascente progetto del Ponte sullo Stretto avrebbe potuto completare l’opera.
Ma proprio nel cuore di questo dibattito, l’Anas delibera nel 1961 l’esecuzione del tracciato interno in un consiglio di amministrazione a parere di molti non regolarmente convocato, in assenza del rappresentante della Regione Sicilia Giuseppe Tesoriere, tra i più competenti esperti di ingegneria stradale in Italia, e dei rappresentanti del Cnel e della Cassa per il Mezzogiorno. Nei giorni seguenti anche la Federazione Italiana della Strada critica aspramente l’operato dell’Anas, e non solo per vizio, ma per il sospetto di non aver approfondito in maniera adeguata un’analisi comparativa tra le diverse ipotesi di tracciato. Ma la decisione perentoria dell’Anas spegne progressivamente ogni dibattito e i lavori proseguono sul tracciato stabilito. E nonostante l’inevitabile aumento dei costi dovuto al passaggio montano ed un successivo tentativo fallito di Mancini di affidare una parte della costruzione all’Iri, l’Autostrada prosegue inesorabilmente il suo percorso e viene completata definitivamente nel 1974, ad esclusione del breve ed impossibile tratto si 2,3 Km sul Sirino, nei pressi di Lagonegro, franato e successivamente dismesso.
Quasi trent’anni dopo siamo nel 2001 quando al danno si aggiunge la beffa. Il Piano generale dei trasporti e della  logistica (Pgtl), finalizzato alla creazione di un Sistema nazionale integrato di trasporti (Snit) certifica una convinzione ormai certa da qualche anno, pronunciando una sentenza assolutamente inequivocabile: “Non ha caratteristiche autostradali l’A3 Salerno – Reggio Calabria anche se è classificata come tale”. Ci si accorge in sostanza che le caratteristiche con le quali l’Autostrada del Sud è stata pensata, progettata e costruita, non bastano per rispettare gli standard minimi richiesti per un’Autostrada. L’epopea dell’ammodernamento e di adeguamento ai requisiti Cnr è iniziata quattro anni prima.  Dal 1997 in avanti l’A3 diventa un enorme cantiere senza soluzione di continuità che attraversa tutto il tracciato dell’Autostrada, montagne comprese. Le condizioni difficili permangono. L’Autostrada che la più difficile da costruire adesso è ovviamente la più difficile da ammodernare.

Il resto esce dalla storia ed entra nell’attualità di un’opera infinita ed infinitamente incompiuta. Inizialmente suddivisi in 77 microlotti assegnati a ribasso d’asta, sparsi lungo tutta l’autostrada, in sostanza assimilabili ad opere di manutenzione, i lavori di ammodernamento vengono successivamente raggruppati con la in 7 macrolotti assegnati ad altrettanti general contractor. L’obiettivo è semplicemente la realizzazione della corsia d’emergenza, con il mantenimento dell’attuale tracciato, ad esclusione di un tratto di 52 Km nel Salernitano dove per la più alta densità di traffico è prevista la creazione di una terza corsia. Il primo annuncio di consegna definitiva della Salerno – Reggio Calabria era fissato per il 2006, l’ultimo in ordine temporale per il 2011, di certo altri ne seguiranno. L’epopea dell’ammodernamento della Salerno – Reggio Calabria non è ancora terminata ed è lecito chiedersi se sia stata corretta la scelta di insistere sul tracciato di un’autostrada mancata piuttosto che crearne una nuova sulla litoranea tirrenica, come in tanti sostengono perfino con costi minori. L’obiettivo finale dei cantieri che ammorbano ogni anno la mobilità interregionale, nazionale ed internazionale è solo ed esclusivamente una corsia di emergenza. Solo un paio di metri in più di larghezza sulle carreggiate di un’autostrada nata zoppa che si sta rivelando obsoleta ancor prima di essere completata. Per lunghi anni una manna dal cielo per l’economia mafiosa, l’unico budello di asfalto percorribile ad una velocità decente da Napoli in giù ed oggi ridotto ad una sorta di colabrodo che ogni anno miete decine di vittime negli incidenti stradali e nei cantieri. Una storia infinita, che continuiamo a leggere e rileggere curiosi ed increduli, che ci racconta come il Sole che partì da Milano decise di fermarsi a Napoli. Da li in poi, il buio.


venerdì 18 novembre 2011

Siti Reali


Prossime visite guidate

Continua l’importante attività di promozione dei magnifici Siti storici di Napoli e del suo mandamento ad opera della benemerita Associazione ONLUS “SITI REALI”.
Occasioni veramente eccezionali per poter visitare, accompagnati da personale competente e motivato, luoghi che per bellezza, valore storico e artistico sono unici al mondo.
Vivamente consigliato.

Cap. Alessandro Romano









IL POPOLO MERIDIONALE ALZI LA VOCE

Diramiamo un articolo di Giuseppe Cangemi che, in breve, traccia un panorama inquietante tra causa ed effetti e cioè tra mafia, che non è causa della povertà, ma effetto di una cattiva politica, e povertà.
Buona lettura.

Cap. Alessandro Romano





 

giovedì 17 novembre 2011

Novità editoriale


COME SI RUBAVA NEL REGNO D'ITALIA DAL 1848 al 1872
ovvero

Storia dei ladri nel Regno d'Italia
da Torino a Roma

Fatti - cifre - documenti
Torino 1872

Borri Felice,  editore libraio
Via Doragrossa accanto al numero 12
Pagine 179


Urbano Rattazzi, allora ministro di Grazia e giustizia, nel 1854 scrisse:
In Piemonte “i reati contro alle proprietà, e massime quelli commessi nelle campagne, sono un male talmente esteso e radicato nel Paese …” (Storia dei ladri nel Regno d’Italia –Torino 1869, p. 34).
E un altro deputato affermò in parlamento: “I furti di campagna sono una lebbra che ormai si estende sopra tutta la faccia del paese”. (Storia dei ladri nel Regno d’Italia –Torino 1869, p. 11).
In Piemonte si rubava di tutto, anche le toghe dei giudici, ed erano tanti i furti che avvenivano nelle chiese di giorno che (nel 1857) il Vescovo d’Ivrea invitò i parroci a vendere i vasi sacri d’oro e d’argento e a sostituirli con altri in rame argentato e dorato. (Storia dei ladri nel Regno d’Italia –Torino 1869, p. 19).
Per acquistare il libro consultare il sito www.bottega2sicilie.net







mercoledì 16 novembre 2011

Il Real Sito del Carditello: una dolorosa storia di degrado e di incapacità politica

La tenuta


la reggia borbonica

Carditello, vendita vicina
Spariscono pure i cancelli

Nuovi raid vandalici. Cimmino: noi disperati
E intanto giovedì c'è la nuova asta per il real sito


CASERTA — Nuova asta pubblica dopodomani per la vendita del Real sito di Carditello. Venti giorni dopo l'ultima andata deserta. Venti giorni trascorsi invano perché nulla è accaduto in questo periodo. Nonostante gli appelli di associazioni, cittadini, uomini di cultura, da un lato, e le dichiarazioni di disponibilità di Regione, Camera di Commercio e Provincia di Caserta, dall'altro, nessuno dei propositi manifestati ha prodotto risultati e le promesse e le rassicurazioni sono rimaste tali. Insomma, la politica locale, e specificatamente la Regione - che potrebbe ancora, solo con una lettera di impegno così come richiesto da tutti - evitare la vendita e, con questa, il rischio che il bene finisca chissà in quali mani, latita. Nel frattempo, il monumento cade a pezzi. Solo qualche giorno fa, infatti, è avvenuto un ulteriore raid vandalico. I soliti ignoti hanno rubato i cavi di rame dell'impianto elettrico e addirittura i cancelli della piccola reggia.
Incursioni facilitate dall'assenza del servizio di vigilanza, assicurato in questo periodo dal custode giudiziario che si occupa del sito su nomina del tribunale, e sospeso da settembre, per mancanza di disponibilità finanziarie. Così, dopo i furti con i quali sono stati asportati parte dello scalone, porzioni di dipinti, caminetti, marmi, e dopo gli incendi, i crolli dei solai e dei tetti, la cenerentola fra i siti borbonici sta per diventare un cumulo di macerie. Peraltro, la situazione debitoria del Consorzio di Bonifica, proprietario del Real sito, si è ulteriormente aggravata. Recentemente, infatti, alle richieste della Sga, la società di recupero crediti del Banco di Napoli, l'istituzione verso la quale il Consorzio è più fortemente indebitato, si sono aggiunte quelle di altri creditori che vantano, però, piccoli importi.
Una novità che complica le cose, perché dopo aver incassato la disponibilità della Sga ad accontentarsi di un risarcimento meno penalizzante per il Consorzio, ora bisognerà trovare l'accordo anche con tutti questi altri soggetti. Insomma, sembra che il destino dell'edificio sia ormai segnato, fra l'incuria, l'insensibilità, l'indifferenza generale, mentre si attende l'asta, che, per la verità, si prevede deserta anche a causa della crisi. Con i tempi che corrono e il mercato immobiliare fermo, infatti, è difficile ci sia un compratore capace di pagare 20 milioni di euro. Ma dalla prossima asta, il prezzo del bene verrà abbattuto del 25 per cento rendendone più conveniente l'acquisto.
Allora, per lo sconforto e la disperazione, il sindaco di San Tammaro, Emiddio Cimmino, provocatoriamente arriva a sperare, disilluso e rassegnato, in un compratore garantito e garantista: «Ma vengano pure i cinesi, chissà, basta che si trovi finalmente la strada - dice - per evitare la sicura e definitiva distruzione di questo pregevole e sfortunato gioiello di architettura e storia».
Lidia Luberto

FONTE: CORRIERE DEL MEZZOGIORNO
8.11.2011

martedì 15 novembre 2011

PROSSIMI APPUNTAMENTI

Diramiamo i programmi di tre importanti iniziative, organizzate direttamente dagli attivisti del Movimento, alle quali i compatrioti e gli amici sono invitati.

Cap. Alessandro Romano

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lunedì 14 novembre 2011

Segnali positivi


A Napoli si è insediato Fabrizio Vona, il nuovo Sovrintendente ai Beni Artistici. Sarebbe una notizia banale, la comunicazione di un semplice avvicendamento istituzionale, se non fosse per le dichiarazioni che il nuovo Dirigente dei beni artistici dell’antica Capitale ha ritenuto rilasciare alla Stampa.
Siamo certi che il definirsi “regnicolo” (abitante del Regno delle Due Sicilie) identifica senza equivoci la coscienza identitaria del personaggio e che tutto quanto ha inoltre dichiarato è perfettamente sintonizzato con quanto da anni andiamo predicando e facendo.
E’ indubbio che il dott. Fabrizio Vona è un magnifico regalo che la Provvidenza ha voluto fare a Napoli:  “l’uomo giusto nel momento giusto” con il quale sarà più facile dialogare e collaborare.

Cap. Alessandro Romano



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Articolo segnalato da Maurizio D’Angelo







EVENTI CULTURALI




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