venerdì 30 settembre 2011

Festa di San Francesco a Cava de' Tirreni

A Cava de’ Tirreni si conserva un’antica tradizione legata alla festa di San Francesco. Una festa talmente grande e partecipata che S.M. Ferdinando I di Borbone, colpito da tanta fede, volle concedere e donare a quella devota comunità la rara e preziosa onorificenza del “ Toson d’Oro”.
Onorificenza che ogni anno viene deposta sulla statua del Santo prima di essere portato in processione.
Su disposizione del Priore del Santuario e per volontà del Comitato per i festeggiamenti di Cava, da qualche anno la cerimonia della “imposizione del Toson d’oro” viene affidata al Presidente del Movimento Neoborbonico che ripropone, solennemente e con grande commozione dei presenti, quell’antico gesto fatto di devozione, di fede e di tradizioni.

Cap. Alessandro Romano








giovedì 29 settembre 2011

Novità editoriale

"Breve storia della società siciliana"

Saggio di Pasquale Hamel sugli ultimi 200 anni
di
Ignazio Coppola


Il saggio di Pasquale Hamel “Breve storia della società siciliana- 1780-1990”, 250 pagine, edito in questi giorni dalla Sellerio editore, si presenta oggi come una più una arricchita riedizione di quello pubblicato nel lontano 1995 e che, con opportuni aggiornamenti e dovute riflessioni, per le tematiche e le questioni poste in essere e nel contesto delle celebrazioni del 150 anniversario dell’Unità d’Italia,assume connotazioni
di grande attualità all’interno di un dibattito avviato da tempo sul ruolo svolto dalla Sicilia e dalla sua classe dirigente nel corso dei suoi due ultimi secoli di storia.

Il meritorio e metodico lavoro di Hamel nella ricostruzione di fatti ed avvenimenti che sono cronaca e storia nello stesso tempo e per questo, ancor che puntualmente documentati, più rispondenti a verità storiche che molto spesso le agiografie ufficiali hanno teso a mistificare e a distorcere.

Il saggio lo si può, per questo, considerare come una obbiettiva panoramica di due secoli della storia siciliana tracciata dall’autore con serenità di giudizio e caratterizzato da una puntuale analisi storica che induce il lettore a coinvolgenti riflessioni sui più significativi avvenimenti che caratterizzarono la storia della Sicilia dalla fine del 700 alla fine del 900.

Partendo da personaggi innovatori e riformatori, protagonisti della fine del 700 siciliano quali furono appunto Francesco Paolo di Blasi e il viceré Domenico Caracciolo, il saggio prosegue poi con le rivoluzioni del 1812 e del 1848 caratterizzate come sostiene Hamel dallo scontro che vide contrapposti il potere istituzionale del re borbone e il potere sostanziale dei baroni siciliani, a difesa dei loro privilegi, che in ambedue i casi si risolse in un primo momento a favore di questi ultimi. Nel 1812 con la concessione della costituzione e nel 1848 con la ricostituzione del parlamento siciliano.Salvo poi tornare allo “statu quo” sino al 1860, anno dell’impresa dei mille e della dissoluzione del Regno delle Due Sicilie e del crepuscolo dei Borbone e poi con la rivolta di Palermo ,che comportò una sanguinosa repressione, del 1866 altrimenti detta del “ Sette e Mezzo”. Con la “conquista regia”, del mezzogiorno e della Sicilia come la definì Gramsci e come opportunamente ribadisce Hamel nel suo saggio “ le province meridionali furono schiacciate e ridotte a ruolo di assoluta subordinazione da parte del nuovo stato italo-piemontese. Sorge così la “questione meridionale”, non causa ma effetto dell’unità nazionale, all’interno della quale si colloca una più specifica “ questione siciliana” che ci trasciniamo drammaticamente sino ai nostri giorni. E su una “Questione Siciliana”, sempre più disattesa e tradita dalle proprie classi dirigenti e dal proprio ceto politico, che Hamel svolge la sua puntuale ed attenta analisi . I Fasci dei lavoratori, il “Progetto Sicilia dei Florio, lo sviluppo del movimento cooperativo siciliano, le emigrazioni, i processi di inurbamento sono tappe significative della storia della Sicilia tra la fine dell’800 e gli inizi del 900, temi che l’autore tratta con estremo rigore storico con testimonianze e documenti dell’epoca che favoriscono nel lettore l’approfondimento delle conoscenza di quel periodo storico. E poi il Fascismo che in Sicilia ebbe caratteristiche, per connotazioni ambientali e sociali, molto diverse che nel resto del paese che finì per concentrare il proprio impegno nei confronti della Sicilia ponendosi due prevalenti obbiettivi. La trasformazione del latifondo e la lotta alla mafia ma.con scarsi successi per i risultati che se ne ebbero.

Ed infine nell’immediato dopo guerra, preceduto dalle aspirazioni e dalle rivendicazioni separatiste di Finocchiaro Aprile e di Antonio Canepa, il battesimo dell’Autonomia Siciliana. Un periodo questo che Hamel racconta in maniera più coinvolgente, forse più da cronista che da storico, con testimonianze e dovizia di particolari frutto di conoscenze dirette che per un periodo lo videro non solo spettatore ma anche protagonista all’interno del palazzo dei Normanni .
L’irripetibile esperienza del milazzismo, che fece esplodere le contraddizioni della classe politica di quel tempo e che sfocerà poi nel primo esperimento del centrosinistra in Sicilia, è riportata nel saggio con l’occhio di chi con lucido distacco traccia una analisi obbiettiva di quegli avvenimenti senza trascendere in giudizi di parte. Infine il periodo degli anni settanta in poi caratterizzato dal dagli sforzi e dai tentativi di una classe politica emergente impegnata in un progetto di “solidarietà autonomistica” per il riscatto morale e sociale dell’isola, drammaticamente vanificati dalla barbarie mafiosa con gli efferati omicidi di Pio La Torre e di Pier Santi Mattarella convinti vessilliferi del quei valori fondati sul solidarismo delle forze progressiste siciliane.

In conclusione il saggio di Hamel non è una storia “tout-court” della Sicilia degli ultimi due secoli ma un attenta riflessione suffragata da puntuali testimonianze e documenti sulle cause sociali, ambientali,economiche e politiche che pregnarono e caratterizzarono quel periodo storico attenzionato dall’autore. La conclusione pessimistica sulla “irredimibilità” della Sicilia a cui perviene Hamel riesumando il termine, a suo tempo, coniato da Leonardo Sciascia e forse la stessa a cui perverrà il lettore dopo avere approfondito gli interessanti temi contenuti nel saggio e che fa giustizia, per buona parte, di quei luoghi comuni che riguardano la Sicilia e che troppo spesso hanno caratterizzato la storiografia ufficiale e di maniera.
© Riproduzione riservata

Pubblicato da SICILIA INFORMAZIONI del 26 settembre 2011

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Prezzo: 12,00 Euro
Brossura: 250 pagine
Editore: Sellerio Editore Palermo (2011)
Collana: Il divano
Lingua: Italiano
ISBN-10: 8838925720
ISBN-13: 978-8838925726
Peso di spedizione: 181 g



Sinossi

Non una storia in breve della Sicilia, ma una storia della società siciliana, precisamente di quel complesso patto sociale che lega l'Isola, pur in una situazione di crescita, ad una permanente arretratezza. Attraverso le tappe cruciali della vicenda isolana, dai tentativi giacobini fino agli anni dell'Autonomia regionale, Pasquale Hamel illustra la sua tesi di attualità critica vibrante, oggi che tornano spiriti di ambiguo rivendicazionismo sicilianista. Nella società siciliana si ripete da secoli lo stesso copione: classi popolari subalterne all'egemonia dei ceti forti, classi dirigenti unite nel dare agli "altri" le colpe dei propri secolari ritardi, e portatrici di una politica consistente nell'accettare sostanzialmente uno Stato assente in cambio della conservazione del potere delle locali oligarchie dominanti.




mercoledì 28 settembre 2011

Brigantaggio e Questione Meridionale

Scoperchiata dai neoborbonici la pentola della verità, “la storia negata” esce prepotente e molti autori, scrittori e giornalisti scoprendo questo nuovo filone fanno a gara a riproporre le sue pagine più significative.
Nell’ambito di questa riscoperta, si muove la recente inchiesta storica proposta da Maurizio De Tullio e riportata dal periodico “RINASCITA” nell’edizione del 21 settembre 2011.
Buona lettura.

Cap. Alessandro Romano





Centocinquant’anni della questione meridionale alla luce del cosiddetto brigantaggio
Una coraggiosa inchiesta storica curata dallo studioso e giornalista foggiano Maurizio De Tullio.
M'è particolarmente grato presentare lo studio condotto da Maurizio De Tullio sull’argomento più spinoso relativo al triplo cinquantenario: non solo dell’Unità d’Italia ma pure della questione meridionale, che è ad essa indissolubilmente legata. L’autunno 2011, infatti, rappresenta un altro 150esimo, quello della tentata conquista di Potenza da parte dell’esercito dei briganti, comandati da Carmine Crocco (1830-1905).
De Tullio – le cui opere più volte sono state recensite su queste pagine (24 giugno, 14 e 28 luglio 2009, e 16 gennaio 2010) – direttore del bimestrale foggiano “Diomede. Tra passato e futuro”, si avvale degli interventi e contributi di Massimiliano Sponzilli – direttore dell’Istituto nazionale per il Commercio Estero a Singapore, nonché docente alle Università di Trieste e Milano-Bicocca; del poeta e saggista Rosario Brescia e del giornalista Alessandro Galano.
La questione meridionale non è mai giunta a soluzione in trenta lustri. La mafia e la camorra furono richieste e rivitalizzate dai piemontesi per meglio controllare il territorio, mentre l’esercito sabaudo avanzava a stento nell’Italia meridionale. Il “brigantaggio” è stato, quindi, forma militare della rivolta contadina contro i “galantuomini” rifattisi liberali e risposta socio-politica alla perdita dell’indipendenza e a “liberatori” che si esprimevano in francese. I “liberatori” si esprimono sempre in un idioma sconosciuto.
L’Italia dei Savoia prese a saccheggiare il Regno delle Due Sicilie – privandolo innanzitutto delle sue immense riserve auree – rendendolo una miserabile Colonia delle “Due Sardegne”, molto simile al proprio possedimento posto a sud della Corsica. Consiglio la visione dello sceneggiato televisivo in sette puntate diretto da Anton Giulio Majano, “L’eredità della priora” (1980), e del film con regia di Pasquale Squitieri “Li chiamarono...briganti!” (1999) (1).
Il fascismo bloccò il processo sabaudo, fingendo di non vedere e congelando il tutto col vietare l’argomento in un tentativo d’omogeneizzazione nazionale. La Repubblica cercò di rimediare col varo di leggi speciali, provvedimenti finanziari, sgravi, ecc. Ossia creazioni della doppia faccia del clientelismo diccì-piccì, i quali hanno sempre agito di comune accordo sia nell’elaborare che approvare le leggi finanziarie, che a dividersi i consensi in specie nella spartizione delle regioni australi.
Furono varate la riforma agraria e la Cassa del Mezzogiorno, facce della stessa medaglia consociativa. La prima non pienamente attuata e male proseguita per, al contempo, alimentare per poi frenare le illusioni “colcosiane” dei contadini di fine anni Quaranta – in seguito scappati al settentrione o nel resto del mondo per evitare ripetute Portella della Ginestra e l’inedia. La seconda, facitrice di cattedrali del deserto in zone poco mature, e promotrice di enti, aziende, istituzioni, consorzi e quant’altro, ove i partiti ci potessero sguazzare e “spalmare” il proprio consenso. Assieme, apparato ghiandifero per il sostentamento di destra e “sinistra”.
Per finire un chiarimento sullo storico nome del regno meridionale. La Sicilia si distaccò dalla Spagna nel 1713 per dar vita al primo regno dei Savoia; per breve tempo, in quanto dal 1718 passò all’Austria; e nel 1734, col Mezzogiorno, formò sotto i Borboni il regno delle «Due Sicilie», mantenendo però i suoi ordinamenti separati. A questo punto è interessante rilevare che il nome di «Due Sicilie» ebbe origine dal fatto che, dopo i Vespri siciliani, tanto gli Aragonesi (effettivi sovrani di Sicilia) quanto gli Angioini (re di Napoli ma pretendenti sempre al dominio dell’Isola) portarono il titolo di re di Sicilia. Per cui, quando Alfonso V d’Aragona il Magnanimo (1396-1416-1458) riunì in sé le due corone (1443), assunse il titolo di re delle «Due Sicilie»: alla sua morte l’unità si spezzò. Invece, Giuseppe Napoleone Bonaparte fu solo nominalmente re delle «Due Sicilie» (1806-08), in quanto non aveva giurisdizione sull’Isola, in mano dei Borboni; per cui, concretamente, il successore Gioacchino Murat (1808-15) ritenne solo il titolo di re di Napoli. Ai Borboni la Sicilia rimase anche nei periodi in cui essi persero il Continente (1806-15), e nel 1812, auspice Lord William Cavendish Bentinck (1774-1839), ebbe una costituzione parlamentare elaborata da Paolo Balsamo sul modello inglese, conservando la divisione amministrativa creata dagli Arabi quasi un millennio prima.
(G.A.)


Unità d’Italia e dintorni (I)

Anniversari e anniversari fra secessionismi e miti

di
Maurizio De Tullio


Siamo in pieno 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, già celebrato il 17 marzo e, com’era prevedibile, visti i tempi, infuriano le polemiche. Ognuno cerca di tirare la coperta dal proprio lato, scoprendo l’altro, così come, invece di guardare al futuro e nell’ottica di una nazione e di un popolo veramente uniti, si tenta di fare la conta di chi ha più colpe, di chi le ha combinate più grosse.
Altra cosa è la ricerca storica, l’inchiesta giornalistica, che devono camminare – ogni giorno – con le mani libere, ed altra cosa ancora è la discussione politica, quella alta, non certo la caciara leghista, movimento prima e partito poi che da quando esistono non hanno mai fatto mistero della volontà di separare nord e sud, con un colpo di spugna, come se ciò fosse logico e giustificabile prima ancora che possibile.
Intendiamo dare uno sguardo, ampio, a ciò che oggi si muove attorno al “mito” dell’Unità d’Italia. Gli interventi che ospitiamo, compresa la recensione al libro del collega Pino Aprile (Terroni, presentato anche a Foggia recentemente), sono volutamente univoci: danno spazio a opinioni che non esitiamo a definire “forti” e attendono voci opposte, che sostengano opinioni del tutto diverse e magari cariche di altrettanto peso polemico.
Non vogliamo arrivare ad un referendum, non ce n’è bisogno. Ma, come Pino Aprile, sosteniamo che sapere è sempre necessario per poter decidere in tutta autonomia e piena convinzione.


Interventi & Contributi


Nel 1856 il Regno delle Due Sicilie era il terzo Paese più industrializzato al mondo.
A favore di un Mezzogiorno decaduto. L’eccellenza del Regno Borbonico

di Massimiliano Sponzilli



Con sobrietà, quasi in sordina, hanno avuto inizio le celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia. Restano, tuttavia, ancora numerose le voci dissonanti e appaiono distanti le analisi sul processo di unificazione e sui suoi stessi risultati.
Nella realtà storica, la spedizione dei Mille di Garibaldi forzò totalmente la situazione, presentando a Cavour l’opportunità di offrire ai Savoia il regno d’Italia e non della sola “padania” come, invece, previsto dagli accordi segreti di Plombières negoziati dallo stesso Cavour con Napoleone III.
Ma il Mezzogiorno, prima di Garibaldi, era davvero la «negazione di Dio in terra», come ebbe a scrivere Gladstone?
Giuseppe Garibaldi giunse a Napoli, in treno, verso le ore 13 del 7 settembre 1860 ove fu accolto dagli “oppositori” dei Borbone. Alla testa del corteo che seguiva la sua carrozza si trovavano i capi della camorra (“Tore ’e Criscenzio”, Jossa, Capuano, Mele), seguiti dalla tavernaia Marianna De Crescenzo, detta la “Sangiovannara” a favore della quale Garibaldi decreterà una pensione di dodici ducati al mese, accompagnata dalle prostitute “Rosa ‘a pazza”, “Luisella ’a lum a ’ggiorno” e “Nannarella ’e quatt’rane”. Questa era l’ “opposizione”!
Il Regno dei Borbone, per contro, aveva offerto all’umanità il genio di Giambattista Vico (1668 –1744), l’acume di Ferdinando Galiani (1728-87) il barocco di Domenico Scarlatti (1685-1757). Inoltre, esso vantava rilevanti eccellenze. In soli 270 giorni, 41 anni prima della Scala e 51 prima della Fenice, era stato costruito il teatro San Carlo. All’Esposizione Internazionale di Parigi del 1856 il Regno delle Due Sicilie era stato riconosciuto quale terzo Paese più industrializzato al mondo. La prima ferrovia in Italia (Napoli-Portici, 1839) offriva biglietti ridotti ai cittadini meno abbienti, «alle persone di giacca e coppola, alle donne senza cappello, ai domestici in livrea ed ai soldati e bassi ufficiali del real esercito». Ma con i Borbone furono anche realizzate, nel 1839, la prima illuminazione a gas in Italia e, nel 1858, la prima galleria ferroviaria al mondo.
Il Mezzogiorno vantava anche rilevanti industrie, come l’impianto metalmeccanico di Pietrarsa, che impiegava circa duemila operai, o i cantieri navali di Castellammare che vararono il primo battello a vapore con propulsione ad elica, il Giglio delle Onde, ed i primi esperimenti di lavoro sansimoniano.
Infine, era rimarchevole la solidità della finanza pubblica. Francesco Saverio Nitti (1868-1953), nel suo La scienza delle finanze (Napoli, 1903) (2), rileva che al momento dell’unificazione d’Italia le riserve del Regno Borbonico ammontavano a 443 milioni di Ducati-oro, pari a quasi il 70% del patrimonio di tutti gli stati pre-unitari messi insieme.
Tuttavia, le politiche di sviluppo economico e perfino le scelte nei progetti infrastrutturali seguite alla riunificazione non furono premianti per il Mezzogiorno. Ed iniziò quel declino e quel processo involutivo culminati nell’odierno assistenzialismo esasperato che ha portato larga parte della popolazione a vivere di prebende e malaffare e facendo sempre più del Mezzogiorno una periferia incompresa, ed anche disprezzata.
Il punto, allora, riconosciuta la realtà storica, è la necessaria identificazione del cosa e del come fare perché il 150esimo anniversario dell’unità d’Italia divenga l’inizio di un processo di rinascita e valorizzazione del patrimonio morale, culturale e produttivo di una parte significativa del nostro paese che tanto può e merita di esprimere per costruire, in un sano e coerente sviluppo, il benessere delle proprie genti.


Unità d’Italia e dintorni (II)

Il brigantaggio: oppositori o malfattori?

Contadini nullatenenti ridotti alla fame da una miseria antica, ex soldati borbonici, giovani renitenti alla leva: furono questi i principali protagonisti di una rivolta sociale, espressione esasperata del malessere delle classi contadine, che infiammò il Meridione all’indomani dell’Unità d’Italia. Nel 1861, infatti, il Sud era in rivolta contro il nuovo sistema piemontese poggiato su classi agiate del latifondo e della borghesia, contro l’abolizione degli usi e delle terre comuni, contro nuove ed esose imposte e il regime di occupazione militare.
Il fenomeno, che caratterizzò in maniera drammatica quel periodo travagliato della storia del Meridione, prese il nome di “brigantaggio”. E mentre ieri Francesco Saverio Nitti, riferendosi alle condizioni dei meridionali, scriveva: «briganti o emigranti» oggi ancora riemerge, spesso in maniera contrastante, il dibattito su quella che viene indicata ancora come questione meridionale. Ma chi furono veramente i briganti, legittimi oppositori o semplici malfattori? (M.D.T.)



Le differenze fra la piaga del banditismo e il fenomeno del brigantaggio.
Dall’«esercito dei cafoni» alla manovalanza d’emigrazione.

di Rosario Brescia


Il fenomeno del brigantaggio rappresentò nel Meridione d’Italia un evento particolarmente vasto e dai diversi aspetti. Vi fu infatti un brigantaggio delittuoso e criminale, che accolse tra le proprie fila malviventi e assassini votati alla grassazione e pronti ad uccidere per il facile profitto. Le zone della Puglia settentrionale rimasero tristemente famose per la presenza di tali banditi e per la frequenza delle loro aggressioni, che si consumavano in quel difficile passaggio rimasto tristemente noto come il Vallo di Bovino. Infatti, in quel pericoloso transito, lungo il passaggio della strada che da Benevento portava alla piana foggiana, orde di masnadieri assaltavano viaggiatori e commercianti i quali, spesso, prima di mettersi in viaggio erano addirittura costretti a lasciare testamento.
Vi fu, però, un’altra tipologia di brigantaggio, diversa se non nei modi sicuramente nelle motivazioni che lo animarono e lo sostennero: quello cosiddetto politico, il brigantaggio postunitario e reazionario che si oppose ad una unificazione sostenuta con le armi e con leggi che continuavano a privilegiare le classi agiate, anziché promuovere riforme importanti e rispettose della povertà.
A questo si aggiunse anche l’istituzione del servizio di leva che, all’indomani dell’Unità – reso obbligatorio per tutti – andò inevitabilmente a sottrarre braccia alle già misere famiglie contadine del Meridione.
Disperato e ancora maltrattato, il Sud probabilmente non colse la logica e la bontà di un’operazione importante come l’Unità d’Italia. O probabilmente non si ebbe la capacità di incentivare un evento tanto apprezzabile quanto oggettivamente difficile da attuare, che se non altro necessitava di riforme sociali responsabili e importanti. E le misere condizioni di un popolo affamato non mutarono, ma per certi versi, peggiorarono. La logica delle armi infine prevalse sulle ragioni del miglioramento, e un esercito bene armato fece valere il nuovo ordine sabaudo che si sostituì a quello borbonico. La politica repressiva piemontese a distanza di alcuni anni in effetti si rivelò efficace per debellare il brigantaggio meridionale che, però, era solamente il sintomo, elevatosi a simbolo sanguinario, di un vasto malessere. Molti braccianti si fecero briganti, infatti, sperando probabilmente di ottenere un minimo di riscatto da antiche ingiustizie e dalla squallida miseria che da sempre li opprimeva. Ma rabbia e disperazione poco fanno contro fucili e baionette.
L’esercito piemontese per quasi cinque anni si trovò a fronteggiare «l’esercito dei cafoni»: moltissime bande armate, capeggiate da ex soldati borbonici e favorite da contadini nullatenenti ridotti alla fame da una miseria antica.
Non mancarono le donne, pronte a difendere anche con i denti i loro uomini fuggiti nei boschi.

Il capo brigante santagatese Giuseppe Schiavone

Nella sola Capitanata furono censiti oltre 1500 briganti. Tra questi, rimasto famoso per le sue notevoli imprese, il capo brigante Giuseppe Schiavone Di Gennaro, soprannominato Sparviero (n. 1838), di Sant’Agata di Puglia. Descritto in diversi testi sul brigantaggio come uomo di spericolato coraggio, la sua baldanza lo portò presto al comando di una delle bande di quell’esercito che, comandato da Crocco, il “Generale” dei briganti, nell’aprile-novembre del 1861 marciò su Melfi, Ripacandida, Venosa, altri paesi del Vulture sino a tentare la conquista di Potenza.
Schiavone morì fucilato in Melfi nel 1864 con alcuni suoi fidati compagni: Giuseppe Petrella di Deliceto, Rocco Marcelli, Pietro Capuano di Anzano di Puglia e Vito Rendola, anche lui santagatese.
Stessa sorte toccò a tantissimi altri briganti condannati per direttissima, spesso senza neppure uno straccio di processo nel quale potersi difendere. Tra loro anche molta gente inerme che, a seguito della tristemente famosa Legge n. 1409 del 15 agosto 1863, detta “Legge Pica”, si ritrovò molto spesso ingiustamente accusata di complicità (essa stabiliva che poteva essere qualificato come brigante – e, dunque, giudicato dalla corte marziale – chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone).Ma chi furono veramente i briganti? Legittimisti oppositori che non vollero piegarsi alle regole di un nuovo Stato venuto con le armi e da lontano, o più semplicemente malfattori, banditi, come spesso riportato dalla storiografia ufficiale che tuttavia non ha mai indagato a fondo il fenomeno, partendo magari anche dai motivi che lo animarono e passando, soprattutto, anche attraverso la spietatezza con la quale fu debellato? Il dibattito è ancora oggi intenso e quanto mai attuale. E spesso riemerge a coinvolgere uomini e opinioni.
Come avvenne alcuni anni fa, quando il Sindaco di un comune lucano avanzò la proposta di intitolare una strada ai “Briganti Lucani”. Ferma e decisa, la risposta del Prefetto di Potenza non si fece attendere. Niente strade da intitolare ai briganti. «Il termine brigante – scrisse la Prefettura, come riportarono i giornali – è sinonimo di malvivente che, stando alla macchia, compie azioni criminose come membro di una banda organizzata – precisando che – i briganti si resero responsabili di gravissimi reati quali omicidi, rapine, estorsioni».
Per tentare di raccontare la storia dei vinti, e le ragioni che spinsero «il popolo dei cafoni» a ribellarsi, si levarono subito numerosissime voci, prima fra tutte, autorevole, quella del noto e valente scrittore lucano Raffaele Nigro che in un interessante, appassionato e provocatorio articolo dal titolo Onore ai briganti, siamo figli loro, spiegò su “La Gazzetta del Mezzogiorno” i motivi per cui si diceva favorevole all’intitolazione di una strada dedicata ai briganti.
«Noi siamo figli di quei liberali e di quei briganti che ci hanno rimesso le penne sulle montagne centocinquant’anni fa. – scriveva Nigro nel suo articolo – Pedio schedò dodicimila nomi, nomi di sconosciuti... migliaia di silenziosi oppositori e ribelli che magari furono prima con Garibaldi a Calatafimi e al Volturno e poi gli furono contro, quando seppero che aveva permesso a Bixio di fucilare i contadini a Bronte. Perché i contadini si aspettavano la terra e invece si accorsero che c’era stata solo una rivoluzione borghese e non una rivoluzione sociale...».

O briganti o emigranti.

E se di legittima ribellione e opposizione si trattò, come sostenuto nel suo articolo da Nigro, un giorno o l’atro sarà la storia a decretarlo, ci auguriamo. Magari attraverso una più degna attenzione alla memoria dei vinti. Quei vinti che definiti sommariamente “briganti” meritano se non altro un’attenta revisione dei fatti e dei tempi che li videro molto spesso, sia pure in maniera agguerrita, disperati inseguitori di una vita migliore e più decorosa.
Una dignità che non solo non trovarono loro, ma che non ottennero neppure i loro figli e i figli dei loro figli. Molti di essi, infatti, videro mutare la propria condizione solo perché da briganti divennero emigranti. Avvalorando proprio quanto sostenuto dal grande Francesco Saverio Nitti, Presidente del Consiglio, il quale, riferendosi al Meridione d’Italia, scriveva: «In alcune delle nostre province del Mezzogiorno specialmente, dove è grande la miseria e dove grandi sono le ingiustizie che opprimono ancora le classi più diseredate, è legge triste e fatale: o emigranti o briganti».
Secondo alcuni dati dell’epoca, solo intorno al 1876 lasciarono i loro paesi per emigrare oltre 230 mila meridionali.
Ecco, in conclusione, se dunque non è stato possibile qualche anno fa intitolare una strada ai briganti lucani, in attesa magari di una revisione storica più attenta e profonda una via in qualche paese del Sud la si potrebbe intitolare a tanti loro figli e nipoti. A tutti quei meridionali, insomma, che all’indomani dell’Unità d’Italia dovettero abbandonare i loro poveri paesi per cercare altrove un minimo di sostentamento dignitoso.
Una strada intitolata agli “Emigranti Meridionali” dunque, se non altro in cambio di quella via da loro spesso cercata, eppure ancora oggi troppo spesso negata. La via del ritorno.



Il recente di libro di Pino Aprile, “Terroni”, che mette tutto in discussione.
L’Unità d’Italia?
Una “brutta bestia” nata male nel gio(g)o di ruoli Nord-Sud

di Alessandro Galano

«Io non sapevo». «Io non conoscevo». «Io non immaginavo». Il saggio Terroni (Piemme, Casale Monferrato [Al], marzo 2010) di Pino Aprile, inizia per negazioni. Ci sono una ventina circa, le quali pongono subito il lettore dentro un dibattito quanto mai attuale.
Pugliese, nativo di Gioia del Colle ma tarantino di fatto, con il suo saggio, Pino Aprile si rivolge a tutti gli italiani e dice: «è sepolta nella nostra anima inconscia una brutta bestia, la memoria di come è stata fatta male l’Italia». D’altronde, il sottotitolo di Terroni è inequivocabile: Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del sud diventassero Meridionali. Attraversando la storia dell’Unità infatti, l’autore analizza il rapporto tra Nord e Sud e arriva sino ai nostri giorni, fino alla Lega Nord e alle autonomie di cui sempre più s’arricchisce (o indebolisce) il Paese, tanto per essere chiari. E analizza lo scacco con cui l’uno tiene l’altro. La chiave, per Aprile, è nel ruolo.
E dunque nel comportamento che segue a questa attribuzione di ruoli fatta con la forza, con il sangue anche, la quale dura da 150 anni e che per 150 anni si è fatto in modo di conservare, rafforzare, preservare. Il Nord sopra il Sud. Il Sud colonia del Nord. Punto.
Nonostante al momento dell’Unità le condizioni socio-economiche fossero opposte, con una ricchezza, culturale e industriale, nettamente spostata al di qua di Roma. Nonostante si sia fatto di tutto per depauperare le risorse del Meridione in favore di un Settentrione che non ne aveva affatto, di risorse. Nonostante ogni intervento abbia avuto, per 150 anni e adesso ancora di più, l’unico fine di arricchire il Nord a spese del Sud.
L’autore porta avanti questo impianto teorico avvalendosi di esempi storici precisi che attraversano tutta l’Unità d’Italia e che lo conducono a porre quella che per lui è l’unica domanda possibile: perché non accade nulla? O meglio, perché loro lo fanno e noi ce lo facciamo fare? E qui, forse attirando su di sé i dubbi di una forzatura concettuale, l’autore si serve di un altro dispositivo scientifico: la psicosociologia.
Secondo questa scienza, dice Aprile, citando esperimenti e aneddoti concreti, bastano 24 ore per accettare i ruoli ed essere indotti a dei comportamenti in assoluta conformità a quei ruoli imposti. La vittima, in sintesi, agisce in modo da rafforzare il ruolo del carnefice. E per l’autore il Sud subisce questo “giogo [con la «g»] di ruoli” da 150 anni e per questo, tornando alla domanda del libro, non accade nulla.
Il saggio lascia più o meno aperta la conclusione ma, per intenderne bene il senso, è opportuno rifarsi alla viva voce dell’autore: «L’Italia è un paese duale perché una parte del paese usa l’altra – ha detto Aprile – perché il Sud è colonia del Nord, da sempre, e non potrà venirne fuori fino a che non sarà padrone delle decisioni che lo riguardano. E non è detto che debba accadere per forza staccandosi. È un modo – conclude l’autore – ma è l’ultimo modo possibile».
Cifre sulle perdite da parte di guerriglieri (briganti) e truppe piemontesi tra il 1861 e il 1872:
Guerriglieri uccisi
154.850 caduti in combattimento; 111.520 fucilati o morti in carcere; 266.370 in totale.
Guerriglieri condannati
328.637 alla detenzione; 10.760 all’ergastolo; 339.397 in totale.
Guerriglieri giudicati
19.850: dopo un processo; 479.000: senza processo; 498.850 in totale.
Soldati piemontesi uccisi tra il 1861 ed il 1872 nella repressione della guerriglia
21.120 caduti in combattimento; 1.073 morti per malattie o per ferita; 820 dispersi o disertori; 23.013 in totale (3).


Note
(1) Il film fu penalizzato dalla critica e registrò un incasso irrisorio al botteghino (75 milioni di lire), dovuto anche all’immediato ritiro dalle sale cinematografiche ed è introvabile sia in supporto VHS che DVD. I motivi della sospensione non sono ancora chiari, sebbene i detrattori parlino di censura. Lo scrittore Lorenzo Del Boca affermò al riguardo che «per ammissione unanime dei commentatori, è stato boicottato in modo che lo vedesse il minor numero di persone possibile». Ciononostante, il film è divenuto un importante punto di riferimento storico, basandosi su documentazione d’archivio; inoltre ha riscosso grande successo in convegni, ed è diventato argomento di studio in università.
(2) La scienza delle finanze di Nitti, fu tradotta in diverse lingue (francese, giapponese, portoghese, russo e spagnolo) nonché adottata in diverse università, in Italia (fin quando il fascismo lo rese possibile), , Europa centrale, Russia, Paesi dell’America latina.
(3) Dati tratti da http:// www. brigantaggio. net/ brigantaggio/ Documenti/ CarteRivolta.htm





lunedì 26 settembre 2011

Il referendum che non fu. L'Italia nasce con una truffa, quella dei plebisciti.


Antirisorgimentali ingaggiati per le celebrazioni dell'unità a Villafranca


Rievocazione di una battaglia contro il re Carlo Alberto e del seggio del plebiscito nella città della pace. Il Comune finanzia il comitato delle Pasque veronesi che vuole il ritorno alla penisola divisa. E gli concede anche il castello.

Villafranca. Un seggio per «ricostruire le dubbie modalità» con le quali si svolse il plebiscito del 1866, che sancì l'annessione del Veneto all'Italia, sarà il modo di celebrare i 150 anni di unità nazionale a Villafranca, il prossimo 11 settembre.
La città del trattato di pace, che nel 1859 segnò una delle prime tappe del percorso di unificazione, festeggerà il compleanno italiano con una manifestazione organizzata dal Comitato per la celebrazione delle Pasque veronesi. Il gruppo è collegato ai movimenti antirisorgimentali. Per capirci, quelli che nelle piazze della provincia ricostruiscono fedelmente un seggio del «plebiscito truffa del 1866», come lo definiscono, illustrando «il clima di coazione fisica e psicologica in cui quelle consultazioni si svolsero». Insomma, è come se si dicesse a un anticlericale di officiare messa.
Così, l'11 settembre, il castello sfoggerà il gazebo del plebiscito e farà da scenario alla rievocazione storica di una battaglia risorgimentale combattuta nell'aprile del 1848. Nulla richiama il 1861 e l'unità d'Italia. Perché l'idea è stata suggerita proprio dal Comitato, nel luglio scorso. «L'evento», spiega l'assessore alla cultura Maria Cordioli, «rientra nelle celebrazioni dei 150 anniversario dell'unificazione. Abbiamo accolto la proposta affidando tutta l'organizzazione a Maurizio Ruggiero (anche segretario dei comitati Antirisorgimentali, ndr) avvalendoci della collaborazione dell'assessorato alla cultura della Provincia».
Il Comitato, al mattino, allestirà un accampamento delle truppe imperiali e sabaude in centro storico, che alle 16, al castello, si scontreranno con armi e cannoni a salve. I 55 figuranti rievocheranno uno scontro che ebbe luogo a Quaderni, si legge nel programma del Comitato, l'8 aprile 1848, tra reparti imperiali veronesi del 45° reggimento Arciduca Sigismondo e quelli sabaudi del Re Carlo Alberto.
Villafranca metterà a disposizione gratuitamente gli spazi e darà al Comitato un contributo di 3.000 euro. Si accollerà anche la spesa di 715 euro del «rancio per la truppa» di stanza al centro sociale. Organizzerà anche una conferenza stampa di presentazione dell'avvenimento, pretendendo che il Comitato, nel materiale promozionale della giornata, evidenzi la collaborazione dell'assessorato alla cultura.
Il programma della manifestazione si può scaricare anche dal sito
www.traditio.it, il portale dei cattolici tradizionalisti di Verona, che ingloba anche i Comitati delle pasque veronesi e quelli antirisorgimentali. Questi ultimi definiscono il Risorgimento un falso storico e celebrano l'Italia preunitaria. Vi partecipano associazioni e singoli «stanchi della bolsa propaganda sulla patria di plastica inventata e imposta nel 1861 e negli anni a seguire, in luogo dell'autentica Patria storica rappresentata dai Comuni e dagli antichi Stati preunitari», si legge sul sito. Vi aderiscono gruppi «della galassia venetista» e ancora indipendentisti, legittimisti e neoborbonici, tradizionalisti cattolici, esponenti della destra non nazionalista, singoli militanti e dirigenti della Lega Nord.
La loro attività di quest'anno era volta a proporre contro-eventi in occasione delle manifestazioni celebranti l'unità d'Italia, a cominciare dalla prima areniana con la presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Definiscono «infelice» la proclamazione del regno d'Italia e «nefasta» la ricorrenza del 17 marzo, invitando a non esporre il tricolore. Organizzano incontri anti-risorgimentali, supportando la tesi della forzatura del Risorgimento che avrebbe costretto le popolazioni a una serie di guerre civili...
Ferma restando la libertà di espressione, sancita dalla Costituzione, non c'era altro modo per festeggiare i 150 anni dell'Italia? La cui forma repubblicana, sempre da Costituzione, non può essere modificata (art.139), che è una e indivisibile (art.5), con la sua bandiera: il tricolore (art.12)?
Maria Vittoria Adami
L'ARENA del 5/9/2011

domenica 25 settembre 2011

L'OPINIONE

LA LEGGE È PIÙ UGUALE AL NORD CHE AL SUD
di
Lino Patruno

 Poi dice che il Sud sta sempre a lamentarsi. Per esempio l’Alenia in Campania. Il nuovo piano industriale di Finmeccanica (ma guarda) prevede lo spostamento della sede legale della società aeronautica da Pomigliano a Venegono in provincia di Varese. Motivo dichiarato: l’incorporazione di Alenia Aermacchi in Alenia Aeronautica, con la creazione di una nuova società.
In genere la sede legale rimane a chi incorpora non a chi viene incorporato. Ma questa volta no. Sospetto: non sarà che la società incorporata è a Varese, città non solo nordista ma discretamente cara al capo della Lega, Bossi? E’ quello che voleva spostare anche tre ministeri a Monza, anzi a modo suo l’ha fatto con tanto di fanfare benché non ci siano neanche tavoli e sedie.
Ed è quello che, mentre l’Italia rischia il fallimento, invece di stringersi “a coorte” per difenderla, parla di referendum per fare la Padania, illudendosi di contare più di una Slovenia o una Croazia, con tutto il rispetto.
E tuttavia il problema non è solo avere una sede, dove magari si può dare un posto di impiegato o usciere a chi già ce l’ha, togliendolo a chi non ce l’ha come il Sud. Il problema è che dove una azienda ha la sede legale, lì paga le tasse. E quel territorio arricchisce benché produca altrove. Tranne poi dire, come il medesimo Bossi fa di continuo, che i soldi devono restare dove sono prodotti. La legge non è uguale per tutti, ma è più uguale per il Nord.
E’ una aberrazione di marca feudale, come il signorotto che razzolava galline, frumento e soldi fra i contadini, consumandoli poi nel suo possedimento. Per fare un esempio, i soldi delle tasse dei lombardi dovrebbero essere spesi solo in Lombardia, e non redistribuiti dallo Stato in base a una solidarietà nazionale comune a qualsiasi democrazia e civiltà moderna. Senza tener conto che quei soldi i lombardi (o chi per loro, per carità) li fanno anche grazie a beni pubblici (diciamo infrastrutture) pagati dallo Stato, cioè anche dai meridionali. E senza tener vieppiù conto che, nonostante tutte le chiacchiere leghiste, la spesa pubblica dello Stato è ancòra maggiore al Nord che al Sud.
Ma non c’è solo Alenia a dimostrare che il Sud deve essere condannato a restare Sud. Vedi la Puglia, col porto di Taranto. Mille discorsi della domenica: il Mezzogiorno sarà la piattaforma logistica in Mediterraneo. In altre parole, una felice posizione in grado di farlo diventare il punto di approdo e di ripartenza delle merci che arrivano via mare dall’Asia. Ma mai qualche grande opera per attrezzare quei porti, per dirne una, di fondali più profondi. Mai qualche grande opera per creare il retroporto: se un container arriva a Taranto ma poi vi rimane bloccato perché non c’è collegamento ferroviario veloce per l’Europa del Nord, si perde tutto il vantaggio.
Ora Evergreen, la potente multinazionale di Taiwan, ha trasferito quattro sue linee da Taranto al Pireo, denunciando inefficienze e di fatto svuotando Taranto non solo di lavoro ma anche di prospettive. Un’altra multinazionale del trasporto marittimo, la Maersk, ha abbandonato Gioia Tauro denunciando un assenteismo del 40 per cento. Se così è, la magistratura faccia il suo lavoro senza sconti per meridionali che danneggiano non solo se stessi.
Ma mentre nel Mediterraneo sta per raddoppiare il traffico, non uno straccio di investimento serio, non una miseria di facilitazione fiscale per non perdere il ricco flusso. L’opposto del Nordafrica, ma anche di Spagna e Francia, i quali offrono incentivi e attrezzano porti che fra poco metteranno fuorigioco i nostri. Ma tanto, chi se ne importa, sono Sud. Basterà ripetere i discorsi della domenica sulla piattaforma logistica. E accusare un giorno sì un giorno no i meridionali di non rimboccarsi le maniche. Anzi accusarli di essere solo spreco, criminalità e munnezza.
A proposito della quale, non può che suscitare rabbia la sentenza che, dopo tredici anni, ha assolto tutti i 95 imputati del colossale traffico di rifiuti tossici, un milione di tonnellate, seppelliti nel Casertano e nel Napoletano in terreni di frutta, verdura e allevamento. Prescrizioni, errori di procedura, ritardi nonostante le confessioni. Vicenda raccontata nel libro “Gomorra” di Saviano e nel relativo film. E rifiuti provenienti tutti dal Nord, quaranta camion di veleni ogni settimana. Quello stesso Nord che ha rifiutato sdegnato di prendersi (a pagamento) i rifiuti non tossici napoletani rimasti in strada anche perché le discariche erano ricolme dei suoi rifiuti tossici.
Se questo significa Sud che piange sempre, allora è meglio gridare.
Ultime notizie: sulla Lecce-Roma, da ottobre stop ai treni a basso costo con aumento del biglietto fino al 70 per cento. Le Ferrovie vogliono soldi dallo Stato per conservarli. E poi si continua a dire che i soldi dello Stato li vogliono sempre i soliti insopportabili meridionali.



venerdì 23 settembre 2011

Festa dei Gigli a Barra (NA)



Grande successo e grande pubblico alla presentazione del libro e del giglio “malaunità” voluto dal “Comitato Ritorna ‘a Festa” dei Gigli di Barra e dal Movimento Neoborbonico con esposizione della mostra sui primati del Sud preunitario e gli interventi di Eddy Napoli (”malaunità” ieri e oggi), Angelo Forgione (l’orgoglio oltre il calcio), Felice Abbondante (saccheggi, massacri ed eroi dimenticati), Gennaro De Crescenzo (orgoglio neoborbonico per il sud di domani) e Ciro Esposito (organizzatore dell’evento).
Verità storica e passione meridionalista in una delle ultime feste autenticamente popolari di Napoli.
Nella foto i relatori e, sullo sfondo, il giglio con immagini del Regno delle Due Sicilie.

giovedì 22 settembre 2011

Un grande che rimpiange un altro grande



Un pensiero a Roberto Maria Selvaggi nell'approssimarsi del decimo anniversario della sua misteriosa morte.

Non ho l'autorevolezza necessaria per poter parlare di questi due giganti della nostra Causa, ma una riflessione sento il dovere di farla.
L'indirizzo politico-culturale che Zitara ed il barone Selvaggi ci hanno lasciato è profondo ed estremamente significativo.
Zitara, di estrazione progressista, "amava" Roberto Maria Selvaggi, nobile borbonico di estrazione conservatrice che, a sua volta esaltava, ammirava profondamente e sinceramente Zitara. Loro due hanno rappresentato per tutti noi la trasversalità politica della Patria, l'unione di intenti, il coraggio della Fede e la speranza nel riscatto identitario.
Che siano di esempio e monito anche alle nuove leve che tra litigi, maldicenze e pettegolezzi disperdono preziose forze.
Cap. Alessandro Romano  

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Roberto Selvaggi
Gli uomini non sono tutti uguali. Roberto Selvaggi apparteneva a una tipologia oggi rara: era un greco antico, un combattente, uno come Ajace, che si dette la morte per non aver ottenuto le armi d’Achille. Il mito vuole che, sospinte dagli Dei pietosi, quelle armi navigarono sulle onde fino agli scogli dell’Ellesponto, per posarsi sulle spoglie dell’eroe. Se mai avverrà qualcosa di simile, noi potremo dire che la morte di Selvaggi è servita a questa nostra terra, alla quale egli ha dato tutto, persino la vita.
Ma di ciò dubito fortemente. I nostri avi, per ben due volte nel giro di sessant’anni svendettero la Patria e la loro dignità di uomini, perché arrivasse qui un esercito di sbirri. Stupidi pulcinella, persero la patria e anche la terra!
Non siamo diversi da loro. Diciamo di amare la nostra antica Patria, però teniamo la mano ben salda sul portafoglio.
Selvaggi era di un altro stampo. Ci chiamò a raccolta, e noi lo seguimmo finché la cosa non costò alcunché. Poi, quando sarebbe stato necessario mettere mano al borsellino, ci siamo tirati indietro. Proprio come quei crociati che volevano liberare il Santo Sepolcro, ma, appesantiti dal bottino e temendo di perderlo, rimisero le vele al vento e se ne tornarono a casa.
Caro Selvaggi, non so se mai potrò portare un fiore sulla tua tomba. Sicuramente, hai le mie lacrime. Oggi, domani, sempre finché vivrò.
Nicola Zitara


mercoledì 21 settembre 2011

I SITI REALI


la vergogna

Carditello, il real sito tra degrado e agonia
«Reale Delizia» perché nonostante la sua funzione
di azienda, offriva una piacevole permanenza al re.


CASERTA - I famosi «siti borbonici», situati in molte località della Campania, comprendevano i palazzi residenziali e di rappresentanza quali il Palazzo Reale di Napoli (costruito nel Seicento dal viceré spagnolo conte di Lemos), le Reggie di Capodimonte, di Portici e di Caserta, e anche i palazzi e le ville per le vacanze e per la villeggiatura quali il Palazzo d'Avalos a Procida, la Villa d'Elboeuf e la Villa Favorita di Ercolano, il Casino del Fusaro e il Casino di Quisisana a Castellammare di Stabia, il Belvedere di San Leucio (trasformato alla fine del Settecento in una grande fabbrica della seta da re Ferdinando e dal cardinale Ruffo), la Reale tenuta di Carditello e quella di Persano. Ne facevano parte anche laghi e boschi, quali il lago di Agnano, il Demanio di Calvi, la tenuta degli Astroni e quella di Persano e la serra di Cajazzo, destinati allo svago, in particolare la caccia e la pesca, per la famiglia reale e la sua numerosa corte. Va detto che questi «siti» erano, nel contempo, vere e proprie aziende produttive.
Erano famosi gli allevamenti di cavalli di razze pregiate nella tenuta di Persano e di fagiani nella serra di Caiazzo. La Reggia di Carditello venne fatta costruire nel comune di San Tammaro da Carlo III per essere destinata alla caccia ma venne poi trasformata da Ferdinando IV in una fattoria modello per la coltivazione del grano e l'allevamento di razze pregiate di cavalli e bovini. Progettata dall'architetto Francesco Collecini, allievo di Luigi Vanvitelli, era immersa in una vasta tenuta ricca di boschi, pascoli e terreni seminativi e si estendeva su di una superficie di 6.305 moggia capuane, corrispondenti a circa 2 mila ettari.
La conduzione dell'azienda dava lavoro a centinaia di famiglie di contadini che erano ospitate nelle case costruite secondo un criterio di «comune agricola», del tutto simile alla «comune operaia» realizzata a San Leucio. Carditello era uno dei siti reali che si fregiava del titolo di «Reale Delizia» perché, nonostante la sua funzione di azienda, offriva una piacevole permanenza al re e alla sua corte per le battute di caccia nei numerosi boschi ricchi di selvaggina. L'area antistante, formata da una pista in terra battuta che richiama la forma dei circhi romani, abbellita con fontane, obelischi e un tempietto circolare dalle forme classicheggianti, era destinata a pista per cavalli. Vanto del Regno delle Due Sicilie i «siti» erano mete di visite ammirate dei «grandi viaggiatori dell'Ottocento».
Wolfgang Goethe così ne scrisse: «Bisogna vedere questi siti per comprendere cosa vuol dire vegetazione e coltivazione della terra (...) intensamente e diligentemente coltivata come l'aiuola di un giardino». Nel 1920 gli immobili e l'arredamento passarono dal demanio all'Opera Nazionale Combattenti e i 2070 ettari della tenuta furono lottizzati e venduti. Rimasero esclusi il fabbricato centrale e i 15 ettari circostanti, disposti a ventaglio sui lati ovest, nord ed est del medesimo complesso, che nel secondo dopoguerra entrarono a far parte del patrimonio del Consorzio generale di bonifica del bacino inferiore del Volturno. Da molti anni la tenuta di Carditello è in uno stato di scandaloso abbandono, che «l'ha resa sconosciuta ai più e relegata in una posizione inferiore rispetto ad altre località e siti di interesse artistico». Nonostante il grave stato di decadenza e la scomparsa dei boschi che ne facevano da cornice, sono ancora intuibili la ricchezza e bellezza architettonica della Reggia e la stupenda veduta d'insieme del sito.

Sergio Rizzo e il caso Carditello.
Anche Sergio Rizzo e Gianantonio Stella, nel loro recente «I vandali», hanno evidenziato l'urgenza d'arrestare la razzia di decori, sculture, arredi architettonici, ormai in atto da troppi anni. E non penso che la soluzione sta nell'ordinanza del gennaio scorso del tribunale di Santa Maria Capua Vetere che ne ha disposto la vendita all'asta, da espletare nel prossimo mese di ottobre. Sarebbe lo scandaloso epilogo di una vergognosa vicenda. Da scongiurare ad ogni costo. In occasione della celebrazione del 150° anniversario dell'Unità d'Italia un complesso architettonico abbastanza simile, la Venarìa Reale, fatto costruire dai Savoia vicino Torino, è stato restaurato e offerto all'ammirazione dei visitatori italiani e stranieri. La stessa occasione andrebbe colta per recuperare allo splendore del suo primo giorno la Reggia di Carditello dei Borbone.
Gerardo Mazziotti
CORRIERE DEL MEZZOGIORNO del 15 settembre 2011

martedì 20 settembre 2011

La farsa di Porta Pia



ROMA, 20 SETTEMBRE 1870
L’AGGRESSIONE MASSONICA ALLA CITTÀ ETERNA


Nel progetto di destabilizzazione e stravolgimento degli equilibri internazionali messo in atto dalla setta massonica, vi era il colpo di grazia alla Capitale Cattolica del mondo, al simbolo di una cultura ultramillenaria dalla quale è scaturita la civiltà di Cristo, vi era l’aggressione a Roma.
Ridurre Roma da città universale a capitale di uno staterello messo insieme con la forza delle sopraffazioni, degli inganni e della più disonorevole crudeltà militare, fu quel "fatto d'arme" che la storia ci ha tramandato con il nome di “Breccia di Porta Pia”.
Un evento storico mistificato, esaltato, mal raccontato se non completamente stravolto dalla storiografia ufficiale. Quella storiografia che continua da 150 anni a diffondere una mitologia senza senso, una retorica tronfia e dissacrante dei principi pregnanti della nostra cultura, della tradizione dei nostri Padri, della religione di Cristo.
In allegato tre studi revisionisti sui fatti di Porta Pia.
Buona lettura. 
  Cap. Alessandro Romano



 













lunedì 19 settembre 2011

Evento a Barra (NA)

Martedì 20 settembre, ore 21.30, via Mercalli, Barra (Na), presentazione del giglio dedicato al dibattito, tuttora in corso, sui 150 anni dell’Italia unita, a cura del COMITATO "Ritorna 'a festa". Presentazione del libro “Malaunità” con Gennaro De Crescenzo (Presidente Associazione Neoborbonica), Angelo Forgione (Giornalista - Responsabile movimento V.A.N.T.O), Eddy Napoli (Artista – Cantante), Felice Abbondante (scrittore), Ciro Esposito (resp.le-evento). Presenta la serata Ciro Giustiniani (Made in Sud). A seguire il teatro dei “Due per Duo” (Made in Sud, Colorado Cafè). Dal pomeriggio mostra di documenti e immagini sul “Sud dai primati alle questioni…”. Link-video di presentazione  http://www.youtube.com/watch?v=vXZKngDyY3Q


Quando qualche mese fa le note e le parole di “Malaunità” iniziarono a girare nella mia mente, l’augurio che gli facevo era quello di farsi sentire, il più forte possibile, nelle piazze e tra la gente perché “Malaunità” è un grido necessario di rabbia e di amore. Rabbia per quello che è stato 150 anni fa (e che nessuno ci ha raccontato mai bene), amore per una terra ed un popolo ignorati e umiliati da troppo tempo. Ecco perché quando mi è arrivata la richiesta di presentare il nostro libro a Barra dopo la caratterizzazione musicale e scenografica di un giglio, sono stato contento: la festa dei gigli di Barra è una delle poche feste popolari rimaste a Napoli e quelle note e quelle parole si faranno sentire, forti e chiare, nei vicoli del quartiere. Uno squarcio di verità storica in un momento di festa. Appuntamento, allora, a Barra… Eddy Napoli

Sulla burocrazia borbonica

Radicate nel linguaggio comune, le definizioni più negative della gestione amministrativa pubblica vengono sistematicamente riferite al Regno delle Due Sicilie.
Ad iniziare dal sistema archivistico fino ad arrivare al reclutamento del corpo impiegatizio è sufficiente affiancare alla parola “organizzazione” l’aggettivo “borbonica” per avere un quadro pregiudizialmente chiaro di cosa si stia parlando.
Per smontare certi gravi ed infondati luoghi comuni che, oltre ad offendere la storia e la verità, sviliscono e mortificano un intero popolo, basta semplicemente scavare negli archivi e mostrare come, invece, con quanta oculatezza, equità e buon senso venivano gestite la pubblica amministrazione e le finanze di quello stato.
Il documento allegato del 1824 è una giusta risposta a quelle calunnie che vogliono attivo nel periodo borbonico la legge di assunzione per diritto ereditario o nobiliare.
Infatti appare in tutta la sua chiarezza quale sistema si era adottato per assumere ed avanzare di grado gli impiegati dello stato. Sistema che, alla luce di una serie di recenti storture, sembra essere sicuramente più idoneo e funzionale.
Se a certe menzogne corrispondono tali verità è legittimo almeno dubitare su tutto quanto si dice e si scrive di negativo intorno a quel periodo.
Il documento parla da solo, tuttavia mi piace evidenziare il principio di preparazione professionale quale elemento di discriminazione essenziale e superiore all’anzianità di servizio ed al livello sociale di appartenenza.
Cap. Alessandro Romano




venerdì 16 settembre 2011

Garibaldi fu ferito





Continua inesorabile lo sgretolamento dei miti della "storiografia di regime” e la  retorica risorgimentale vacilla sotto i colpi inesorabili del revisionismo storico e della verità.


Un nuovo duro colpo alla credibilità dell’ “eroe nazionale” ed a tutta la vulgata risorgimentale che lo esaltò a “Dio dell’onestà e della vittoria”, questa volta arriva da un attento studioso, un serio e rigoroso professionista, primario chirurgo presso l’ospedale Ascalesi di Napoli, il dott. Gennaro Rispoli.
Ricordo che a scuola si celebrava con commozione ed accorato trasporto la ferita che Garibaldi dovette sopportare dall’ingrata Italia per mano di un bersagliere troppo zelante e preciso. E per questo sacrificio che lapidi, monumenti, ritratti, foto e tutto quanto la "migliore" retorica risorgimentale fornisce a mani basse, celebrano da 150 anni il mito, il condottiero indefesso, l'eroe al di sopra di ogni sospetto.
Adesso, però, scopriamo che le cose non andarono proprio come le hanno raccontate e che, smontata anche questa patetica messa in scena dell’Aspromonte, le menzogne ancora riportate dai libri di scuola e dalla storiografia nazionale della Repubblica Italiana, alimentano solo una vergognosa mitologia che celebra falsi eroi, racconta fantasiose gesta, esalta simboli massonici ed impone culture ed ideali lontani dalla verità storica e contrari ai principi della democrazia costituzionale.
Riportiamo lo studio del dott. Gennaro Rispoli, al quale vanno tutti i nostri attestati di stima ed ammirazione, pubblicato da IL MATTINO di Napoli il 3 settembre u.s. a firma di Paolo Barbuto.
Buona lettura.

Cap. Alessandro Romano

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Garibaldi ferito dalle sue camicie rosse
Studiosi napoletani: riesumare il cadavere

di
Paolo Barbuto


Sembra la trama di uno di quei serial televisivi nei quali i protagonisti riprendono vecchi casi polizieschi e vanno a cercare il colpevole dopo decenni; solo che in questo caso la vicenda risale a 150 anni fa e il protagonista è uno che ha scritto la storia d’Italia.
«Abbiamo studi e documenti: a ferire Garibaldi sull’Aspromonte fu uno dei suoi, una delle camicie rosse. Venne colpito dal fuoco amico, insomma», davanti allo sguardo attonito dei presenti, Gennaro Rispoli riscrive un pezzo della nostra storia.
E lo fa spiegando di non voler creare troppo clamore intorno a questa vicenda. Sessantuno anni, primario chirurgo all’ospedale Ascalesi, motore trainante dell’associazione «Il faro di Ippocrate» che gestisce anche il museo delle arti sanitarie, Gennaro Rispoli è un vulcano di idee e di proposte.
Quando si è trovato di fronte ai dettagli del ferimento del generale s’è incuriosito, ha studiato i reperti, letto i documenti e, da chirurgo con grande esperienza di pronto soccorso a Napoli, e quindi di colpi di arma da fuoco, ha capito che c’era qualcosa che non quadrava.
«Sull’Aspromonte, prima dello scontro il generale si rese conto che i suoi uomini erano pochi. Sarebbe stato un massacro. Così impose alle camicie rosse di non fare fuoco, e si frappose fra le due fazioni. Solo che qualche testa calda sparò ugualmente: nacque una piccola battaglia durante la quale Garibaldi rimase ferito. Poi arrivò la resa». Fin qui il racconto è fedele a quello dei libri di storia nei quali, però, si dice che sono stati i bersaglieri a ferire il generale per evitare che guidasse l’assalto alla Roma papale.
C’è anche il nome dell’uomo che avrebbe ferito l’eroe d’Italia nell’agosto del 1862: Luigi Ferrari, ligure di Castelnuovo Magra vicino La Spezia: «È stato lui a colpire il generale», confermarono i commilitoni. «E invece è impossibile che sia stato un bersagliere a ferire Garibaldi», racconta il professor Rispoli presentando la sua teoria davanti a un parterre di tutto rispetto, da Maurizio Scoppa, neo commissario della Asl Napoli 1 al giudice Raffaele Marino, a Luigi De Paola, direttore sanitario dell’ospedale degli Incurabili, sede del museo delle arti sanitarie dove si svolge l’incontro.
Per dimostrare che quel colpo non è partito da una carabina dei bersaglieri, Rispoli mostra foto e rappresentazioni della battaglia dell’Aspromonte. Garibaldi e i suoi sono su un altopiano, i bersaglieri si trovano in basso: «Però il proiettile che ha colpito Garibaldi ha una angolazione precisa: foro d’ingresso in alto e percorso del proiettile che scende verso il basso», dice Rispoli.
E cosa significa? «Che evidentemente il colpo è partito dall’altopiano dove si trovavano i fedelissimi del generale». Pare incredibile il racconto. Ma il professor Rispoli presenta foto dello stivale del generale, rapporti ufficiali dei medici che lo operarono, radiografie eseguite postume sul corpo: tutto collima con il racconto.
«Abbiamo messo assieme un pool di esperti, tutti napoletani, per proseguire lo studio: dal presidente del Ceinge Franco Salvatore al medico legale Antonio Perna, al consigliere Marino. Il prossimo passo sarà chiedere l’esumazione del corpo di Garibaldi per poterlo analizzare». C’è anche un particolare che conferma la nuova teoria: i proiettili dei bersaglieri pesavano 30 grammi, quello estratto dal malleolo del generale e tenuto nascosto dal figlio Menotti per decenni, ne pesa solo 22.
Gli approfondimenti sulla vicenda proseguiranno nelle prossime settimane con incontri a Ischia e Procida durante i quali verranno mostrati altri documenti inediti e sono annunciate testimonianze importanti.
Per adesso la certezza è una «Garibaldi fu colpito da uno dei suoi. Erano ragazzini, poco esperti e desiderosi di combattere. Però c’è un altro mistero da chiarire: le pistole dei garibaldini riuscivano a colpire solo a distanza ravvicinata, 20 o 30 metri al massimo. Perché fu esploso quel colpo se i nemici si trovavano lontani più di trecento metri?».

Il MATTINO del 3 settembre 2011


Garibaldi ferito riceve l'inchino e le scusa da un ufficiale
che, poi, lo arresta


La medaglia commemorativa dell'atto eroico





Lo stivale bucato dall'alto



Il luogo dell'Aspromonte dove avvenne l'atto "eroico"

L'albero dove si appoggiò Garibaldi ferito


L'eroe trasporato a valle dai suoi