martedì 9 agosto 2011

GIACINTO DE SIVO. Nella sua biografia la tragedia della conquista del Sud.

Spesso ci imbattiamo in scritti e studi di questo grande storico che ha vissuto in prima persona le fasi conclusive di quella tragedia che vide soccombere il Regno più pacifico e ricco della Penisola sotto i colpi di cannone e della corruzione del Piemonte, liberale e massone. Leggere le sue opere è come scorrere un componimento poetico: elegante, avvincente, dai contenuti veri, crudelmente veri ed inoppugnabili. Giacinto de Sivo ebbe un'esistenza non facile, letteralmente perseguitato e tormentato dal regime sabaudo mai volle tradire la verità e, soprattutto, la sua Patria Napolitana. Fu ed è un raro esempio di onestà culturale e politica, un faro splendente nel buio dei tradimenti e delle menzogne storiche.
Per raccontare la sua incredibile missione di uomo libero, ci affidiamo ad una biografia scritta dal compianto Gabriele Marzocco, attento studioso dei grandi autori del passato.
Ad essa ci permettiamo di aggiungere che di recente abbiamo avuto notizia che la salma di de Sivo fu traslata segretamente a Maddaloni nella cappella di famiglia dove attualmente si trova.

Alessandro Romano

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Giacinto de' Sivo
di Gabriele Marzocco

Giacinto de' Sivo nacque a Maddaloni il 29 novembre 1814, da Aniello, valoroso ufficiale dell'esercito napoletano, e da Maria Rosa Di Lucia. Lo zio, Antonio, aveva fatto parte dell'armata del Cardinale Ruffo. Là de' Sivo visse i primi anni, nei possedimenti la Torre maggiore, il Castello e la Torre piccola, acquistati dai Carafa, antichi signori di Maddaloni.

Frequentò poi, a Napoli, la scuola del marchese Basilio Puoti, maestro di lingua e di elocuzione italiana.

Nel 1840, a 26 anni, compose la prima delle sue otto tragedie, dedicata a Costantino Dracosa, ultimo imperatore di Costantinopoli.

Nel 1844 sposò la contessa Costanza Gaetani dell'Aquila d'Aragona dei Duchi di Laurenzana, figlia del conte Luigi, maresciallo di campo e aiutante generale del re, dalla quale ebbe tre figli.
Sono gli anni in cui a Napoli soggiorna Giacomo Leopardi ed in cui fermentano atteggiamenti politici e si distinguono nettamente i napoletani borbonici da quelli antiborbonici o, come allora si diceva, napoletani-francesi, tali, a detta del Croce, "per avvedutezza politica o per ricerca di appoggio".
Fra questi napoletani-francesi c'era anche un parente di Benedetto Croce, Francesco Paolo Bozzelli, poi bollato giustamente come traditore dal napoletano-borbonico Giacinto de' Sivo.
Successivamente "l'avvedutezza politica e la ricerca di appoggio" fece diventare gli oppositori napoletani-inglesi. A Londra, nel 1684, era stata fondata la Banca d'Inghilterra, nel 1717 la prima Loggia massonica; a Londra avevano trovato rifugio, successivamente, Marat, Danton, Voltaire, Mazzini, Garibaldi, Marx ed Engels.
Nel 1836 scoppiò la questione degli zolfi. La Sicilia aveva quasi l'esclusiva della produzione di questa importantissima materia prima per l'industria civile e militare. I francesi Tayx e Ayard fecero un'offerta che avrebbe assicurato allo Stato napoletano 400 mila ducati all'anno in più di quanto pagavano gli inglesi. Lord Palmerston, senza tanti complimenti, mandò la flotta inglese al largo delle nostre coste e minacciò di sganciare 100 mila bombe su Napoli. Per quella volta le bombe ci furono risparmiate dal dietro front operato dal nostro governo, che non era in grado di sfidare inpunemente la massima potenza marittima del mondo. L'evento commosse profondamente il de' Sivo tanto da indurlo, più tardi, a iniziare un capitolo del libro terzo della sua Storia deplorando la pesante e prepotente mano inglese e a intitolarne ironicamente un altro Amore inglese per l'Italia. Lo stesso Croce riconosce, peraltro, che se l'Inghilterra, dopo essersi impossessata di Malta, non impose il proprio dominio anche sulla Sicilia, lo si deve ai Borboni. E non per niente Augusto Del Noce, nel suo Diario, ha potuto scrivere che "il cosiddetto Risorgimento italiano è stato un capitolo della storia dell'imperialismo inglese".
Un episodio di quegli anni getta luce sul carattere di Giacinto de' Sivo: una sera schiaffeggiò il comandante del reggimento degli svizzeri, che erano entrati avvinazzati nel teatro di Maddaloni (oggi diventato cine-teatro Alambra). Il duello avvenne il giorno dopo ed ebbe le consuete condanne formali, ma tutti, compreso il re, manifestarono le loro simpatie per il giovane e coraggioso poeta.
Nel 1845 il Congresso degli Scienziati si svolse a Napoli: quale avanzamento avessero le scienze nessuno lo seppe. "Appena usciti da Napoli - scrive de' Sivo - ricambiarono i balli e i festini con lo stampare vituperi di Napoli, cominciando la guerra delle calunnie. Il nostro volgo appioppò a quegli scienziati il nome di scoscienziati".
Nel 1847 de' Sivo pubblica il Corrado Capece, che Antonio Tari giudicò il migliore romanzo storico di quell'epoca, eccettuati I Promessi Sposi. In quello stesso anno Lord Mintho riceve dal Palmerston l'incarico di scorrere la penisola e di seminarvi la rivolta.
L'anno dopo  il '48. In tutt'Europa, tranne che in Inghilterra, scoppia la rivoluzione. In Italia si comincia dalla Sicilia, che faceva gola agli Inglesi. Coi ribelli, autori di uccisioni, saccheggi, incendi, rapine, ci sono ufficiali, armi e munizioni inglesi. A Messina, per colpire delle batterie che i ribelli hanno innalzato in piena città, re Ferdinando II, dopo opportuno preavviso, fa scagliare qualche bomba: nasce la leggenda di re Bomba (sol per questo il povero re Francesco, completamente innocente, riceverà il gentile appellativo di re Bombino) L'anno dopo re Vittorio Emanuele di Savoia inaugurerà il regno bombardando non dei ribelli, ma i patrioti della seconda città del regno, Genova, che non accettavano l'armistizio concluso con l'Austria. A lui non fu attribuito l'appellativo di re Bombone, che gli spetta a pieno titolo, ma quello di... re Galantuomo.
Nel 1848 Giacinto de' Sivo, dopo essere stato componente della Commissione per l'istruzione pubblica, fu nominato Consigliere d'Intendenza della provincia di Terra di Lavoro, con settecento uomini ai propri ordini, e dal gennaio al maggio 1849, fu comandante di una delle quattro compagnie della Guardia Nazionale.
Scrive un'opera sulla rivoluzione del 1848-49, ma, "per non parer di percuotere i vinti e inneggiare ai vincitori", non la pubblica e ripone il manoscritto in un nascondiglio della sua villa di Maddaloni Quando, oltre un decennio più tardi, pubblica la Storia, interviene, poi sui burrascosi rapporti tra Napoli e Londra.
"La ricchezza dell'Inghilterra sta nella miseria altrui: perciò suscitano guerre e tradimenti dappertutto. La pace sul continente è fuoco per la Gran Bretagna: perciò deve trafficare in rivolte come in cotone e piatti". Che cosa pensano di fare, allora, gli inglesi. Stabiliscono un congresso annuale della Pace, con sede in quella Londra che dava asilo a tutti gli agitatori dell'orbe, con la partecipazione di Palmerston, un massone, che frattanto armava alacremente un esercito di 400 mila uomini in preparazione della guerra di Crimea.
Lord Palmerston, come nel 1847 aveva mandato il Mintho a rivoltare l'Italia, così nel 1850 mandò a Napoli un altro emissario, il baronetto Gladstone (le fortune della cui famiglia erano state fondate sul commercio degli schiavi). Gladstone, in due famose lettere al conte Aberdeen sui processi di Stato a Napoli in seguito ai fatti del 1848, parla di "violazione incessante, sistematica, premeditata delle leggi umane e divine", e indica il governo borbonico come "negazione di Dio eretta a sistema di governo". I detenuti in tutto il Regno erano 2.024. Nel 1863, a due anni dalla liberazione, nelle carceri della sola Napoli c'erano fino a 20 mila persone! E ancora nel 1865 sul giornale L'arca di Noè, pubblicato a Napoli, fieramente antiborbonico, comparve un articolo, terribilmente serio, sulle durissime carceri italia-ne-piemontesi, che si concludeva così: "Lord Gladstone, fa' un secondo viaggio, vieni un'altra volta (...) Il passato è assai più accettabile, rispettabile ed adorabile del presente".
Sempre nelle sue lettere, Lord Gladstone critica le condizioni igieniche di Napoli. Gli risponde de' Sivo: "II Gladstone che aveva sotto gli occhi il milione e mezzo di mendicanti [su 17 milioni di abitanti], le luride case degli artigiani di Liverpool e Birmingham, e le cave di Manchester osava parlare del lezzo della Vicaria. Asserì che il Settembrini era stato straziato atrocemente, quando il Settembrini stesso nella sua difesa, stampata di nascosto, dichiarò di essere stato ben trattato*.". L'Inglese, tiranno in Irlanda, dove migliaia di persone in quegli stessi anni morivano letteralmente di fame e cinque milioni di abitanti furono costretti ad emigrare in America, che opprimeva l'India, che nel 1840-42 aveva costretto la Cina alla guerra dell'oppio per l'illegale commercio dell'oppio praticato dalla Gran Bretagna, che nel 1882 bombarderà Alessandria d'Egitto, che nel 1899-1902, in Africa del Sud, s'impadronì dei territori boeri con metodi brutali, "operatore in tutto il mondo di incendi, fucilazioni e torture vere, accusava falsamente Napoli di torture".
Nei processi di Napoli neppure uno degli imputati fu condannato a morte, mentre nell'isola di Cefalonia, occupata dagli Inglesi, "per le sommosse del 1848, figlie di quelle suscitate dall'Inghilterra in Italia, venivano condannate a morte 25 persone".
Nell'ottobre del 1856 furono richiamati da Napoli gli ambasciatori inglese e francese, perchè re Ferdinando aveva respinto i loro consigli, cioè le loro ingerenze. I rivoluzionari, che gridavano sempre indipendenza, continuarono a maledire un re che aveva dimostrato di voler essere indipendente. Ferdinando II aveva messo tutto l'anno allo Stato; riuscì ad eliminare il disavanzo dei conti dello Stato, a diminuire le imposte, ad assicurare pace e prosperità ai Napoletani, eppure fu ed è maledetto dai rivoluzionari. Perchè? "Perchè i settari niente maledicono di più quanto il buon governo".
Si scatenò su Napoli un uragano di calunnie mostruose; parlarono di supplizi occulti, di sevizie, di atrocissimi strumenti di tortura: la cuffia del silenzio, la sedia angelica, il trapano ardente, naturalmente mai esistiti se non nella fantasia dei nemici di Napoli. è la lezione di Voltaire: "Calunniate, calunniate: qualcosa resterà". E' restato più che qualcosa, se ancora oggi spesso si sente qualcuno, magari napoletano, definire "borbonico" qualsiasi comportamento incivile e scorretto!
Arriva il 1860. Gli avvenimenti incalzano. Il 24 marzo 1860 il Piemonte cede Nizza e Savoia alla Francia in cambio dell'appoggio da questa fornito nella guerra contro l'Austria per conquistare la Lombardia. "I liberali - scrive de' Sivo - avevano sempre strombazzato che i popoli non sono mercè; e quello stesso Cavour il 7 febbraio 1859 in senato aveva detto che un grande progresso della civiltà moderna il non riconoscere ne' prìncipi il diritto di alienare i popoli (...) ed ecco Vittorio Emanuele liberalesco, firmanti il Cavour e il Farini liberaloni, far pubblico contratto di popoli: Dio aveva posto le Alpi a difesa del bel paese, il Piemonte le cede alla Francia. Volevano Italia una e forte e la sbrindellarono e l'aprirono allo straniero". Volevano fare Italia una, e lasciarono alla Francia l'italianissima Corsica, rinunciarono ai possedimenti veneti della Dalmazia, lasciarono all'Inghilterra l'isola di Malta: per fare 1'"Italia una" prepararono una guerra d'aggressione a uno Stato italiano indipendente: il Regno delle Due Sicilie. Dissero che il popolo, oppresso dalla tirannide borbonica, voleva essere liberato. Certo, c'erano gli scontenti sotto i Borboni. "I pochi malvagi strepitavano, e parevano molti. Erano ambiziosi, sfaccendati, curiali che nell'autorità trovavano argini ai cavilli, erano architetti stanchi del rubar poco, dissoluti avversati nelle libidini, mercanti impediti dai monopoli dei grani, studenti che avevano lasciato Virgilio per il Guerrazzi".
Si organizzò alla luce del sole la spedizione di Garibaldi, che andò da "porto in sicuro mare, sonetto da mezza Italia, da Francia e Inghilterra, con oro massonico (tre milioni in piastre d'oro turche, equivalenti a centinaia di milioni di dollari attuali, che sarebbero servite a catalizzare le fulminee conversioni alla rivoluzione dei molti traditori), con la già comprata flotta avversaria e i preparati tradimenti militari".
Giacinto de' Sivo deve lasciare le sue tragedie storiche (l'ultima è Belisario, proprio del 1860). Una tragedia storica di proporzioni e conseguenze crudelissime si svolge sotto i suoi occhi, lo travolge: la fine di un Regno che vanta otto secoli di esistenza, la fine dell'indipendenza della Patria napoletana.
Nell'intraprendere la narrazione delle vicende che portarono alla caduta del Regno delle Due Sicilie, de' Sivo confessa: II cuore sanguina, la mente si prostra, e l'animo angosciato quasi quasi rilutta contro la volontà del Signore, che tanta ignominia e infelicità permise che insozzasse la già lieta patria nostra"'. Segue, per quasi cinquecento pagine, un lungo elenco di vergognosi tradimenti, incomprensibili indecisioni, scelte funeste, eroismi dimenticati, anzi ignorati, paesi grandi e piccoli messi a ferro e a fuoco per essere rimasti fedeli al loro Re. "Si voleva usurpare la monarchia, e s'è percossa la nazione; si voleva abbattere un re, e si sono spenti 100 mila sudditi".
Il 6 settembre Francesco II lascia Napoli, "perchè non le fosse arrecato danno... ". II 14 dello stesso mese una brigata garibaldina entra in Maddaloni. De' Sivo si rifiuta di andare a Napoli a rendere omaggio a Garibaldi e viene destituito dalla carica di Consigliere. La sera del 14, dopo che la sua villa è stata circondata da centinaia di uomini armati, viene condotto a Napoli con apposito convoglio ferroviario. Mentre il pericoloso letterato è tenuto prigioniero a Napoli, la sua casa è occupata per tre mesi da Bixio, poi da Avezzana, infine da Carbonella. Rovistano dappertutto, i liberatori, tanto che trovano il manoscritto sul 1848-49, e gli lasciano la villa "guasta e vuota di roba". Viene scarcerato, ma il 1° gennaio 1861 è imprigionato di nuovo: il pericoloso scrittore viene portato via di casa di notte, senza nessun motivo, e rinchiuso per due mesi.
Scarcerato di nuovo, vuole sperimentare "la vantata libertà della parola" e pubblica La Tragicommedia, giornale soppresso al terzo numero. Gli fanno capire che gli conviene andar via da Napoli, se non vuole finire dentro per la terza volta.
E così, nella notte fra il 14 e il 15 settembre 1861, s'imbarca sul bastimento Quirinale e si rifugia a Roma.
Si lascia alle spalle una Patria conquistata che, nel solo 1861, ha visto ben 15.665 suoi figli fucilati dai fraterni liberatori piemontesi. Una Patria dove i gigli, simbolo della giustizia e della sovranità, vengono scalpellati via da tutti i monumenti; dove dilaga la caccia ai borbonici. La camorra e la mafia si erano alleate col nuovo potere contro quello legittimo. "Il passato è quello che avverrà": di nuovo la mafia si schiererà col nemico, per facilitare la conquista della Sicilia e oggi la camorra spadroneggia nel Sud. Eppure si dice: "retaggio borbonico".
In quello stesso 1861 de' Sivo pubblica L'Italia e il suo dramma politico nel 1861 e I Napolitani al cospetto delle nazioni civili.
Incaricato dal capo del governo borbonico in esilio, marchese Pietro Ulloa, di scrivere un libro sulla Storia delle Due Sicilie, nell'estate del 1862, ad Albano, ne legge alcuni capitoli al re, il quale "ascolta con entusiasmo; fornisce chiarimenti e documenti". Ma uno speciale Consiglio convocato per chiedere se si dovesse permettere la pubblicazione di una storia contemporanea del Regno delle Due Sicilie, da al sovrano parere sfavorevole, temendo la violenza delle dottrine dell'autore.
Lo stesso Ulloa non mette a disposizione di de' Sivo la documentazione che gli aveva promesso, tanto che lo storico di Maddaloni, in una lettera a Cesare Cantù, scriverà: "ho stimato troncare con lui le relazioni di amicizia". Ciò nonostante de' Sivo continua il duro lavoro. Nel 1863 esce il primo volume, l'anno dopo il secondo. L'opera procura gioia agli onesti, ma provoca proteste violente da parte dei responsabili di dubbi e doppiezze. Il re gli assegna la croce costantiniana ma, delle 400 copie che aveva prenotato, ne ritira solo alcune decine.
Il terzo volume della Storia de' Sivo è costretto a stamparlo, nel 1865, a Verona. Nel 1866 il Veneto è annesso al Regno d'Italia: il tipografo ha paura di pubblicargli gli ultimi due volumi e non gli restituisce nemmeno il manoscritto! De' Sivo è costretto a riscriverli dai suoi appunti: una fatica a cui accenna nella prefazione al quarto volume, uscito col quinto nel 1867: "se dovessi raccontare la storia di questa Storia!..".
Muore il 19 novembre 1867, nelle tarde ore della sera. Fu sepolto nel cimitero del Verano. Sulla sua lapide queste semplici parole: "Salute, o Giacinto, vivi in Dio". Nel maggio del 1960 le sue spoglie sono state traslate nella natia Maddaloni. I napoletani non immemori ne trasmettono l'insegnamento e il messaggio.


 Giacinto de Sivo

Gabriele Marzocco