domenica 31 luglio 2011

FINANCIAL TIMES, GRECIA COME LE DUE SICILIE DOPO L'UNIFICAZIONE

La Grecia sta vivendo, dopo l’adozione dell’euro, «lo stesso processo che portò all’impoverimento permanente del Sud dell’Italia quando la lira divenne la moneta nazionale, dopo l’unificazione avvenuta 150 anni fa con il Risorgimento». Il giudizio è del Financial Times (4.7.2011) in un articolo dell’ex Rettore della Università di Buckingham Martin Jacomb (“Greece has no future within the eurozone”).
«All’inizio del 19esimo secolo – scrive l’editorialista del FT – Napoli era la più grande città d’Italia e la sua regione era abbastanza sofisticata. Ma la sua economia cominciò a declinare rispetto a quella del Nord. Nonostante [il Regno delle Due Sicilie]abbia cominciato a costruire ferrovie negli anni 30 dell’‘800, prima di ogni altro Stato italiano, quello sforzo fu interrotto. (…) Le economie del Nord e del Sud d’Italia cominciarono ad allontanarsi tra loro, ed il declino del Sud si accentuò ulteriormente con l’introduzione della lira, quando perse la possibilità di correggere lo squilibrio competitivo. I meridionali capaci ed intraprendenti si trasferirono al Nord oppure emigrarono, il divario divenne permanente, così come si manifesta oggi. E la tragedia continua». La soluzione - secondo Jacomb - sarebbe “lo smantellamento dell’euro”, che consentirebbe di restituire competitività alla Grecia (ed all’attuale Meridione).
Che la moneta unica abbia avuto un impatto disastroso sull’economia dei Paesi cosiddetti periferici dell’Unione Europea è sotto gli occhi di tutti. Non solo la Grecia, ma il Portogallo e l’Irlanda sono ormai commissariati da Bce, Fondo Monetario Internazionale e Commissione europea, mentre in chiara difficoltà sono Spagna ed Italia. L’altissimo rapporto di cambio lira-euro (1936,27 lire = 1 euro) fissato da Romano Prodi nel 1999 ed una serie di fattori aggiuntivi come gli insignificanti eurocents e l’assenza di una banconota da 1 euro, che fanno dell’euro una moneta “capace di generare di per se stessa inflazione”, come ha osservato l’economista Massimo Lo Cicero, hanno provocato un impoverimento dei ceti medi e popolari a tutto vantaggio della grande finanza e della grande distribuzione. «Se gli italiani non ce la fanno a finire il mese (…) lo devono tutto a Prodi ed a come è stato fatto l’euro, che è stata la rapina del secolo», sintetizzava qualche anno fa il ministro per l’Economia Giulio Tremonti (Ansa, 10.6.2004). Chissà se lo ripeterebbe ancora…

Pubblicato il 04/07/2011 sul Financial Times a firma di Martin Jacomb, ex-Rettore dell'Università di Buckingham.

venerdì 29 luglio 2011

NUOVI APPUNTAMENTI

Neoborbonici attivissimi anche in estate 

Di seguito il fittissimo calendario (provvisorio) delle attività neoborboniche per le prossime settimane. La battaglia per la verità storica e per l’orgoglio non si ferma neanche in estate ed è il frutto del consenso che molti di voi ci manifestano da anni accompagnando in ogni modo le nostre “battaglie”. Dati alla mano (impegni, contatti, iscritti ecc.), restiamo il gruppo più attivo e diffuso del mondo meridionalista-borbonico, grazie ai nostri militanti (vecchi e nuovi) e ai nostri simpatizzanti (vecchi e nuovi)...
-Giovedì 28 Luglio ore 18.00: proiezione del film "La Terra dei Borbone" a Roseto Valfortore (FG), Centro visite, a cura di Pino Marino (Ass. Daunia Due Sicilie e delegato Movimento Neoborbonico per le Puglie)


- Venerdì 29 luglio, dale ore 18.00, San Gregorio Matese (Ce), dibattito con  Pino Aprile e Alessandro Romano--Sabato 30 luglio, dalle 18.30, Castel del monte (L’Aquila), mostra e conferenza sul “brigantaggio” con Alessandro Romano

- Mercoledì 3 Agosto ore 21.00: proiezione del film "La Terra dei Borbone" ad Alberona (FG)
a cura di Pino Marino

- Sabato e domenica 6 e 7 agosto, S. Giovanni in Fiore (Cs), dalle ore 18.00, mostra e conferenza sul “brigantaggio” a cura di Alessandro Romano  

- Sabato 6 Agosto ore 21.00: proiezione del film "La Terra dei Borbone" a Castelluccio Valmaggiore (FG) a cura di Pino Marino

- Sabato 6 Agosto, Castel di Sangro (AQ), presso il Chiostro del Convento della Maddalena, dalle ore 17.00, presentazione del libro “Domenico Bozzelli. Un eroe dimenticato” di Maria Domenica Santucci con Enzo Gulì

- Domenica 7 Agosto, dalle ore 18.00: proiezione del film "La Terra dei Borbone" a Giffoni Valle Piana (SA) e CONVEGNO DI STUDI a cura di Marco Carpinelli con Pino Marino, V. Gulì e P. De Chiara

- Lunedì 8 agosto, Campo di Giove (Aq), ore 18:00 presso Casa Quaranta, Museo Etnologico Abruzzese, MOSTRA di opere inedite per la verità storica del maestro Gennaro Pisco "UNITA’ SENZA VERITA’" – Insorgenze Visive: MOSTRA di Incisioni, Acquaforte, Acquatinta. Con il patrocinio del Comune

- Giovedì 11 Agosto ore 21.00: proiezione del film "La Terra dei Borbone" a Sant'Agata di Puglia (FG)

- Venerdì 12 Agosto ore 21.00: proiezione del film "La Terra dei Borbone" a Volturino (FG)

-Mercoledì 17 Agosto ore 21.00: proiezione del film "La Terra dei Borbone" a Biccari (FG), piazza Municipio, a cura di Pino Marino

- Giovedì 18 agosto, Campo di Giove, alle ore 18:00 presso l'Anfiteatro del Palazzo Nanni, il Prof. Gennaro Pisco (delegato Movimento Neoborbonico per l’Emilia Romagna) e Pino Aprile: dibattitop sul best-seller “Terroni”, con il patrocinio del sindaco e della ProLoco

- Venerdì, sabato e domenica 19, 20 e 21 agosto MAIORI, presso il prestigioso Palazzo Mezzacapo (dalle ore 18.30) TRE GIORNATE NEOBORBONICHE: CONVEGNI, DIBATTITI, MOSTRE, PROIEZIONI-VIDEO E IMMAGINI, CONCERTI SUL TEMA: “UNITA’ D’ITALIA L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA”. A cura di Francesco De Crescenzo con il patrocinio del Comune di Maiori e con la partecipazione di Eddy Napoli (presentazione di libro e CD “MALAUNITA’”), Donato Sarno, Alessandro Romano, Salvatore Mazzella, Enzo Gulì, Gennaro De Crescenzo, Pompeo De Chiara,  

- Lunedì 22 agosto, Palinuro, dalle ore 18.00 - Dibattito sul Risorgimento con la partecipazione di Alessandro Romano    

................... APRITE QUELLA PORTA ...............

di Januaria Piromallo & Marika Borrelli

È una storia di piccola rilevanza fra le pieghe di una città sempre più svilita e defraudata del suo passato, unico fiore all’occhiello che gli è rimasto. È, però, anche una storia di grande rilevanza perché dimostra lo strapotere e l’arroganza dei politici nostrani, giovani o vecchi che siano.
Il Regio Teatro San Carlo di Napoli, il più antico teatro operante in Europa, costruito nel 1737 per volontà di Carlo di Borbone (ben 40 anni prima del teatro La Scala) è uno dei Massimi più famosi del pianeta. Il San Carlo venne dotato di una porta d’accesso che consentiva ai sovrani prima, e ai capi di Stato dopo, di passare direttamente dal Circolo Unione (fra i più antichi e prestigiosi del mondo) al Palco Reale. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha sempre dichiarato: “Cultura e San Carlo sono la bella faccia di Napoli”.
Fatta questa premessa, ora, ditemi voi a chi disturbava quella porta? A Salvo Nastasi (che è anche genero di Giovanni Minoli e devoto di Gianni Letta), il quale, fresco di nomina a commissario straordinario per il San Carlo, la fece chiudere. Avrà pensato che sbarrando quella porta si sarebbe fatto il primo passo verso il risanamento del bilancio profondo rosso del teatro? Ah, saperlo…
Adesso Salvo ha ben altre gatte da pelare, come lo sciopero delle maestranze artistiche che venerdì scorso hanno mandato in scena l’opera Pagliacci senza orchestra e accompagnata solo dal pianoforte. E altri ne minacciano a danno della programmazione del Napoli Teatro Festival.
Chi potrebbe aiutarci? Il sottosegretario al Ministero dei Beni Culturali, Riccardo Villari è il destinatario di questa lettera aperta.
Riccardo carissimo,
Visto che adesso sei Sottosegretario ai Beni Culturali sicuramente qualcosa “puoi” fare per il San Carlo. Mi rivolsi già poco tempo fa a Salvo Nastasi e da lui ottenni una risposta che è meglio non rendere pubblica. Approfitto della tua carica per una piccola, inconsueta richiesta, al solo scopo di conservare, almeno per un po’ ancora, un uso antico di una Napoli e di un mondo che non esistono quasi più. E per render felice un elegante vecchio signore che funge da ultimo custode di questo antico mondo.
Ti spiego brevemente: nel Circolo dell’Unione – di cui il vecchio duca don Piero Piromallo Capece Piscicelli di Montebello di Capracotta è presidente e depositario della memoria storica – esiste da sempre una porta che consente l’accesso diretto al Teatro San Carlo. Gli anziani soci tengono molto – a quanto pare – a questo piccola, borbonica “comodità” (così la chiamano).
Da qualche tempo la porta è stata chiusa, per ordine della Soprintendenza e i soci si sono mortificati alquanto. “Perchè non fanno il giro?”, mi dirai tu. E ti do, pure, ragione. Tuttavia, la porta in questione non si apre semplicemente sul Circolo, ma anche, virtualmente, su un mondo scomparso fatto di ricordi borbonici e sabaudi, che desta tenerezza. È una porta di andata e ritorno diretta sul passato, che consente il transito tra tradizione e realtà, tra ieri ed oggi. È un passaggio dalla difficile quotidianità ad un pezzo di storia di Napoli, di quella Napoli, altera ed elegante, che tutti noi sogniamo e rimpiangiamo, tranne Nastasi, evidentemente. L’antitesi di Gomorra, il suo opposto ideale. Quello che tutti noi vorremmo fosse ancora, o ritornasse ad essere la nostra città.
E allora, ti chiedo, da napoletana a napoletano, se “puoi”, per piacere, riapri la porta di uno dei circoli più antichi del mondo; ridai vita ad un antico uso, innocente e sconosciuto ai più e consenti ancora per un po’ che viva un pezzettino, microscopico, del bel tempo di una volta. Farai felici un po’ di vecchi signori e li farai sentire, qualche volta, per qualche istante, ancora importanti, in un mondo che tende a ignorarli.
Ti ringrazio tanto per quello che tu, da gentiluomo del Sud, potrai fare.

Januaria Piromallo


Teatro San Carlo
"stralcio progetto"


Teatro San Carlo 1800


Teatro San Carlo

giovedì 28 luglio 2011

.............“ E’ TUTTA UN’ALTRA STORIA ”............

1861- 2011
150 anni di inganni e di scherno
“U ‘SSANGHE Ì CHI CE ‘MMUORTE”


Giovedì 11 Agosto
Spettacolo rievocativo della Resistenza al regime Piemontese

Castel Volturno Centro Storico
Largo S. Castrese




martedì 26 luglio 2011

LA STRAGE DI PIETRARSA


IL 6 AGOSTO DEL 1863 A PIETRARSA
L’ESERCITO PIEMONTESE SPARO'
SUI LAVORATORI IN SCIOPERO
FU UNA CARNEFICINA

Tra le tante malefatte di quella sciagurata conquista chiamata “Risorgimento” alla quale le vittime proprio non riuscivano a sottomettersi, vi è la tragedia consumata tra le mura di quella che era una volta l’orgoglio dell’ingegneria pesante napoletana: l’opificio di Pietrarsa.
Fortemente avversata dalla concorrenza internazionale che vedeva, suo malgrado, sfornare da quella incredibile fabbrica di ingegni, ogni tipo di macchina a vapore ad alta tecnologia a prezzi imbattibili, all’indomani dell’annessione al Piemonte del Regno delle Due Sicilie l’ordine dei padroni del mondo di allora fu categorico: “Indebolire prima e chiudere poi la fabbrica di Pietrarsa”.
Nessuna concorrenza poteva compromettere gli interessi dell’Inghilterra e dei suoi alleati-sottomessi, costi quel che costi, e l’ordine fu eseguito anche a costo della vita di quei poveri operai che, ignari degli intrighi internazionali, si fecero ammazzare nel vano tentativo di difendere la loro fabbrica ed il loro salario.
Davanti al Tribunale della storia un giorno saranno chiamati a rispondere anche di questo assurdo crimine, una grave nefandezza consumata ai danni del nostro Popolo, tuttora ignorata nelle ricorrenze, sottaciuta dalle vittime per vergogna e dai carnefici per nascondere un crimine.
Segue un bellissimo articolo del nostro giovane ed attento compatriota napoletano Angelo Forgione.

Cap. Alessandro Romano

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Pietrarsa 1863
Bersaglieri e Carabinieri sparano sui lavoratori
- Angelo Forgione-
1° Maggio, festa dei diritti dei lavoratori conquistati dopo sacrosante battaglie operaie. Una ricorrenza nata negli Stati Uniti nel 1886 dopo i gravi incidenti accaduti nei primi giorni di quel Maggio a Chicago, quando la polizia locale sparò su degli operai manifestanti facendo numerose vittime.
Ma le prime vittime della storia operaia per mano governativa in realtà furono napoletane. Se scaviamo nella storia, già qualche anno prima, nell’estate del 1863, si era registrato un triste episodio a Portici, nel cortile delle officine di Pietrarsa. Una vicenda storica poco conosciuta data la copertura poliziesca della monarchia sabauda, subentrante a quella borbonica, che da poco aveva invaso il Regno delle Due Sicilie dando vita all’Italia piemontese. I documenti del “Fondo Questura” dell’Archivio di Stato di Napoli riportano ciò che accadde quel giorno. Fascio 16, inventario 78: è tutto scritto li.
Il “Real Opificio Borbonico di Pietrarsa”, prima dell’invasione piemontese, era il più grande polo siderurgico della penisola italiana, il più prestigioso coi suoi circa 1000 operai. Voluto da Ferdinando II di Borbone per affrancare il Regno di Napoli dalle dipendenze industriali straniere, contava circa 700 operai già mezzo secolo prima della nascita della Fiat e della Breda. Un gioiello ricalcato in Russia nelle officine di Kronštadt, nei pressi di San Pietroburgo, senza dubbio un vanto tra i tanti primati dello stato napoletano. Gli operai vi lavoravano otto ore al giorno guadagnando abbastanza per sostentare le loro famiglie e, primi in Italia, godevano di una pensione statale con una minima ritenuta sugli stipendi. Con l’annessione al Piemonte, anche la florida realtà industriale napoletana subì le strategie di strozzamento a favore dell’economia settentrionale portate avanti da quel Carlo Bombrini, uomo vicino al Conte di Cavour e Governatore della Banca Nazionale, che presentando a Torino il suo piano economico-finanziario tesio ad alienare tutti i beni dalle Due Sicilie, riferendosi ai meridionali, si lasciò sfuggire la frase «Non dovranno mai essere più in grado di intraprendere». Bombrini era uno dei fondatori dell’Ansaldo di Genova, società alla quale furono indirizzate tutte le commesse fino a quel momento appannaggio di Pietrarsa. Prima del 1860, nata per volontà di Cavour di dar vita ad un’industria siderurgica piemontese che ammortizzasse le spese per le importazioni dalle Due Sicilie e dall’Inghilterra, l’Ansaldo contava la metà degli operai di Pietrarsa che raddoppiarono già nel 1862.
Dopo l’Unità d’Italia l’opificio partenopeo passò alla proprietà di Jacopo Bozza, un uomo con la fama dello sfruttatore. Costui, artificiosamente, prima dilatò l’orario di lavoro abbassando nello stesso tempo gli stipendi, poi tagliò in maniera progressiva il personale mettendo in ginocchio la produzione. Il 23 Giugno 1863, a seguito delle proteste del personale, promise di reimpiegare centinai di operai licenziati tra i 1050 impiegati al 1860. La tensione era palpabile come testimonia il fitto scambio di corrispondenza tra la direzione di Pietrarsa e la Questura. Sui muri dello stabilimento comparve questa scritta: "muovetevi artefici, che questa società di ingannatori e di ladri con la sua astuzia vi porterà alla miseria". Sulle pareti prossime ai bagni furono segnate col carbone queste parole: “Morte a Vittorio Emanuele, il suo Regno è infame, la dinastia Savoja muoja per ora e per sempre”. Gli operai avevano ormai capito da quali cattive mani erano manovrati i loro fili.
La promessa di Bozza fu uno dei tanti bluff che l’impresario nascondeva continuando a rassicurare i lavoratori e rallentando la loro ira elargendo metà della paga concessa dal nuovo Governo, una prima forma di cassa-integrazione sulla quale si è retta la distruzione dell’economia meridionale nel corso degli anni a venire, sino a qui.
Il 31 Luglio 1863 gli operai scendono ad appena 458 mentre a salire è la tensione. Bozza da una parte promette pagamenti che non rispetterà, dall’altra minaccia nuovi licenziamenti che decreterà.
La provocazione supera il limite della pazienza e al primo pomeriggio del 6 Agosto 1863, il Capo Contabile dell’opificio di Pietrarsa, Sig. Zimmermann, chiede alla pubblica sicurezza sei uomini con immediatezza perché gli operai che avevano chiesto un aumento di stipendio incassano invece il licenziamento di altri 60 unità. Poi implora addirittura l’intervento di un Battaglione di truppa regolare dopo che gli operai si sono portati compatti nello spiazzo dell’opificio in atteggiamento minaccioso.
Convergono la Guardia Nazionale, i Bersaglieri e i Carabinieri, forze armate italiane da poco ma piemontesi da sempre, che circondano il nucleo industriale. Al cancello d’ingresso trovano l’opposizione dei lavoratori e calano le baionette. Al segnale di trombe al fuoco, sparano sulla folla, sui tanti feriti e sulle vittime. La copertura del regime poliziesco dell’epoca parlò di sole due vittime, tali Fabbricini e Marino, e sei feriti trasportati all’Ospedale dei Pellegrini. Ma sul foglio 24 del fascio citato è trascritto l’elenco completo dei morti e dei feriti: oltre a Luigi Fabbricini e Aniello Marino, decedono successivamente anche Domenico Del Grosso e Aniello Olivieri. Sono questi i nomi accertati dei primi martiri della storia operaia italiana.
I giornali ufficiali ignorano o minimizzano vergognosamente il fatto a differenza di quelli minori. Su “Il Pensiero” si racconta tutto con dovizia di particolari, rivelando che in realtà le vittime sarebbero nove. “La Campana del Popolo” rivela quanto visto ai “Pellgrini” e parla di palle di fucile, di strage definita inumana. Tra i feriti ne decrive 7 in pericolo di vita e anche un ragazzino di 14 anni colpito, come molti altri, alle spalle, probabilmente in fuga dal fuoco delle baionette.
Nelle carte, dai fogli 31 a 37, si legge anche di un personaggio oggi onorato nella toponomastica di una piazza napoletana, quel Nicola Amore, Questore durante i fatti descritti, che definisce "fatali e irresistibili circostanze" quegli accadimenti. Lo fa in una relazione al Prefetto mentre cerca di corrompere inutilmente il funzionario Antonino Campanile, testimone loquace e scomodo, sottoposto a procedimento disciplinare e poi destituito dopo le sue dichiarazioni ai giornali. Nicola Amore, dopo i misfatti di Pietrarsa, fece carriera diventando Sindaco di Napoli.
Il 13 ottobre vengono licenziati altri 262 operai. Il personale viene ridotto lentamente a circa 100 elementi finché, dopo finti interventi, il governo riduce al lumicino le commesse di Pietrarsa, decretando la fine di un gioiello produttivo d’eccellenza mondiale. Pietrarsa viene declassata prima ad officina di riparazione per poi essere chiusa definitivamente nel 1975. Dal 1989, quella che era stata la più grande fabbrica metalmeccanica italiana, simbolo di produttività fino al 1860, è diventata un museo ferroviario che è straordinario luogo di riflessione sull’Unità d’Italia e sulla cosiddetta “questione meridionale”.
Alla memoria di Luigi Fabbricini, Aniello Marino, Aniello Olivieri e Domenico Del Grosso, napoletani, morti per difendere il proprio lavoro, ogni napoletano dedichi un pensiero oggi e in ogni festa dei lavoratori che verrà. Uomini che non sono più tornati alle loro famiglie per difendere il proprio lavoro, dimenticati da un’Italia che non gli dedica un pensiero, una piazza o un monumento, come accade invece per i loro carnefici.












lunedì 25 luglio 2011

BRIGANTI A CASTEL DEL MONTE (AQ)

I prossimi 30 e 31 luglio saremo, con i nostri Briganti in Mostra e la conferenza sulla genesi del Brigantaggio, nel paese di Castel del Monte, nel contesto delle manifestazioni culturali organizzati dal Comune e dai vari Enti.



domenica 24 luglio 2011

Ministeri delle Due Sicilie già a Napoli

Mentre la Lega Nord festeggia i ministeri istituiti in “Padania”, mentre i politici di maggioranza come di opposizione, del Sud come del Nord, continuano a dimenticare le vere, drammatiche e tuttora irrisolte questioni meridionali, è già attivo a Napoli il “Parlamento delle Due Sicilie” con i suoi “deputati”, i suoi “ministeri” e i suoi atti regolarmente depositati in una sede nel centro storico dell’ex capitale del Regno delle Due Sicilie (http://www.parlamentoduesicilie.it/).
Il Sud è sempre meno rappresentato e difeso a livello politico come a livello economico e culturale. In 150 anni di Italia unita, tra la retorica di una storiografia ufficiale sempre meno credibile e la totale incapacità di classi dirigenti meridionali sistematicamente subalterne ad un sistema nord-centrico, i meridionali sono costretti a sopportare le umiliazioni e i danni di un Paese sempre più diviso, come dimostrano tutti gli studi relativi a PIL, occupazione, emigrazione soprattutto giovanile o servizi pubblici.
E’ urgente e necessario, allora, al di là di veri o falsi “partiti del Sud”, formare classi dirigenti finalmente fiere, radicate e adeguate per il futuro delle prossime generazioni ed è questo l’obiettivo principale della provocazione legata alla costituzione del “Parlamento neoborbonico”, sull’esempio del passato, dell’autonomia, della dignità e dei primati che potevamo vantare fino al 1860...
Il “Parlamento delle Due Sicilie – Parlamento del Sud”, è un gruppo di azione civico-culturale nato con la sua prima seduta nel gennaio 2010 presso il Maschio Angioino di Napoli: nel rispetto delle leggi nazionali ed europee, è composto da 150 meridionali (professionisti, docenti, artigiani, artisti, imprenditori, giovani) provenienti da tutte le antiche province del Regno (da Gaeta a Palermo), riuniti in Commissioni di Lavoro (“Ministeri”) per competenze e con tre obiettivi importanti nel rispetto delle leggi nazionali e locali: controllare la comunicazione e la politica sul Sud, proporre progetti e iniziative per la difesa e la valorizzazione del Sud, formare classi dirigenti finalmente adeguate.
Ufficio Stampa
347 8492762

sabato 23 luglio 2011

Diamo voce agli Autori Locali

SISTEMA BIBLIOTECARIO "SUD PONTINO" - COMUNE DI CASTELFORTE

 
Nonostante i tagli alla Cultura che ci hanno decimato i finanziamenti, il Comune di Castelforte ed il Sistema Bibliotecario Sud Pontino, col Patrocinio dell' Amministrazione Provinciale di Latina e la Regione Lazio, sono lieti di invitarLa alla V edizione di
"Diamo voce agli Autori Locali"
 
La manifestazione, tesa a promuovere gli autori locali nelle diverse forme artistiche, si svolgerà a Castelforte nei giorni 23 e 24 Luglio 2010. L'edizione annuale vedrà la presenza di:
-  Autori "multimediali" come Massimo Cerina, Carmina Trillino e Fert Alvino con Irene Vallone,
-  Autori  ricercatori come Vincenza Capolino, Lorenzo Ciufo e Maria Moschella,
-  Autori teatrali come Nino Fausti e Alberto Ticconi che metteranno in scena una loro rielaborazione in dialetto de "la  Mandragola" di Machiavelli, con commento musicale dei musicisti locali Luciano De Santis, Ivan Franzini e Pierluigi Moschitti.

Inoltre è previsto il concerto Jazz di Pippo Matino , una mostra di  Maria Angela Antuono e l'assegnazione del premio "Autore dell'anno" istituito da questo Sistema Bibliotecario.
 
In allegato il programma completo.


giovedì 21 luglio 2011

LA STORIA CELATA TRA LE RIGHE DELL’ITALIA UNITA

La storiografia, di ieri e di oggi, si impegna a far luce sul Risorgimento italiano e sulle violenze subite dall’allora Regno delle Due Sicilie ad opera dei garibaldini e dell’esercito sabaudo.
In occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, i media si sono impegnati a divulgare la storia delle origini del nostro Paese, eppure, ancora oggi, parte della storia, bollata come “Meridionalismo”, sembra essere volutamente taciuta. Non tutti conoscono quello che per milioni di meridionali è stato il Risorgimento italiano. Ne parla il giornalista e scrittore Pino Aprile nel suo ultimo successo editoriale: Terroni, tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del sud diventassero meridionali. “Io non sapevo”, scrive l’autore, “che i piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto”; “non sapevo”, continua, “che, nelle rappresaglie, si concessero libertà di stupro sulle donne meridionali […] Ignoravo che, in nome dell’Unità nazionale, i fratelli d’Italia ebbero pure diritto di saccheggio delle città meridionali, come i Lanzichenecchi a Roma”.
“Cose da cloaca”, avrebbe detto lo stesso Garibaldi ricordando le atrocità subite dal Sud da parte delle autorità costituite. Una storia indicibile che trova tuttavia riscontro in numerosi documenti storici e in alcuni “dati di fatto”, cui la stessa storiografia ufficiale deve dare credito. Non è casuale la poca attenzione data, in questi giorni, specie da canali e testate specializzate, al fenomeno del Brigantaggio, pur fondamentale per comprendere gli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia. Unica spiegazione sono quelle verità “scomode” che si celano dietro ad un fenomeno anzitutto sociale, è vero, ma pur sempre politico.
“Si incarcerarono i meridionali senza accusa, senza processo e senza condanna”, scrive sempre Pino Aprile, “come è accaduto con gli islamici a Guantánamo”, etichettando come briganti tutti coloro che si opposero al nuovo governo italiano. Non che al Sud il pensiero risorgimentale non si fosse affermato o l’idea di un’Italia unita non trovasse proseliti, migliaia sono i patrioti meridionali che servirono, con i Mille, la causa italiana, ma per loro, in pieno accordo con le ideologie garibaldine, l’ “alleanza” con Vittorio Emanuele II non fu che il pretesto per costringere i Borbone, mai totalmente propensi all’ipotesi di una monarchia costituzionale, alla fuga. Alla nascita di una nuova Repubblica napoletana, molto probabilmente ciò che realmente agognavano quanti combatterono al fianco del generale Garibaldi, si oppose duramente, e con ogni mezzo, lo stato sabaudo.
L’intervento militare delle truppe piemontesi, fermato a Teano dalla “resa” pacifica di Garibaldi, che concesse il Sud al re, e le azioni “anti-terroristiche” organizzate dal governo italiano nel meridione, giustificate sotto il nome di “lotta al brigantaggio”, spensero i sogni di quei patrioti italiani, ancor prima che meridionali, che avevano sperato di creare, con una novella Repubblica napoletana, un’alternativa, possibile e repubblicana, ad un’Italia sabauda, piemontese e monarchica.
Questi patrioti, si veda ad esempio Carmine Crocco, alleatisi con filo-borbonici ed ex soldati dell’esercito borbonico, lottarono poi, sotto il nome dispregiativo di briganti, per difendere il Sud dall’avanzata di un re “straniero”, certamente non diverso dai suoi predecessori, ma pur sempre non napoletano, come invece si definiva Francesco II di Borbone, ultimo re delle Due Sicilie. La repressione piemontese fu micidiale. “Non volevo credere”, scrive ancora Pino Aprile, “che i primi campi di concentramento e sterminio in Europa li istituirono gli Italiani del Nord, per tormentare e farvi morire gli italiani del Sud, a migliaia”.
Anche i meridionali, come Garibaldi e i suoi, dovettero scendere a patti con i Savoia, accettando, a loro spese, la monarchia costituzionale sabauda come l’unica via possibile per un’Italia unita. “Né sapevo”, continua l’Aprile, “che i fratelli d’Italia venuti dal Nord, svuotarono le ricche banche meridionali, musei, case private (rubando persino le posate), per pagare i debiti del Piemonte”, il quale, aggiungo, ben lontano dal potersi considerare una “potenza europea”, non avrebbe potuto gestire altrimenti, economicamente, un territorio, l’intera penisola italiana, ben più vasto del Regno di Sardegna e la cui situazione post-unitaria non fu affatto facile. Prosciugando le risorse economiche del Regno delle Due Sicilie, uno stato sotto i Borbone, per l’epoca, già “fortemente” industrializzato, tanto da vantare la prima ferrovia italiana, la prima nave a vapore a solcare il Mediterraneo e la terza flotta navale più potente del tempo, frutto di una cantieristica straordinariamente all’avanguardia, i Savoia poterono fare l’Italia.
“La questione meridionale”, scriveva Nitti, uno dei massimi esponenti del Meridionalismo, “è una questione economica, ma è anche una questione di educazione e di morale”, che tutti gli italiani devono conoscere e comprendere a fondo. “Lo Stato Italiano è stato una dittatura feroce”, diceva Gramsci, “che ha messo a ferro e fuoco l’Italia Meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infangare chiamandoli Briganti”. Una storia celata, scomoda, ma pur sempre parte di quel glorioso cammino verso un’Italia unita che, nostro malgrado, continua ancora oggi ad etichettare i suoi figli, ieri come briganti, oggi come terroni.
Paolo Gallinaro

mercoledì 20 luglio 2011

IN RICORDO DI OTTO D’ASBURGO

Non vorrei sbagliare ma la stampa napoletana lascia quanto meno a desiderare, il maggior quotidiano della città non ha ritenuto opportuno notiziare la morte dell’ultimo imperatore d’Austria avvenuta in un piccolo villaggio della Baviera, terra a noi particolarmente cara, per aver dato i natali alla nostra Regina Sofia che Iddio abbia in eterna gloria.
Con Otto d’Asburgo è andata via una pagina della storia dell’Europa.
Egli ha ben interpretato nella sua lunga vita una tradizione senza la quale nessuna costruzione politica potrebbe reggersi. I suoi conoscitori nella sua persona hanno potuto osservare l’evolversi degli accadimenti che nel bene e nel male hanno caratterizzato il vecchio continente. Un giornale non napoletano ha delineato la persona del defunto fin da quando bambino di appena quattro anni seguiva il feretro dell’Imperatore Francesco Giuseppe, fra il seguito oltre ad esserci il padre Carlo, che appena pochi anni or sono ha avuto la gloria dell’Altare, vi era la madre Zita ramo Borbone Parma. Dal triste evento che in quel lontano 1917 colpì l’Impero Austro- Ungarico fu possibile immaginare che da li a poco la grande unione di popoli sarebbe andata in frantumi. La famiglia imperiale fu costretta a un lungo esilio e alle diplomazie vincitrici non parve vero il calpestare impunemente la parte perdente. Francia e Inghilterra si distinsero, la prima spinta da odio atavico contro la dinastia asburgica la seconda forte di una diplomazia bugiarda e perversa convinse il deposto imperatore a scegliere la via dell’esilio. In precedenza, visto l’attaccamento della famiglia imperiale al suolo patrio fu effettuato il tentativo di reingresso di tutta la famiglia asburgica in Ungheria ma non fu permessa la residenza quantunque il titolo di re di Ungheria era indipendente dalla qualifica di imperatore d’Austria. Era nel destino che Il suolo portoghese avrebbe accolto la famiglia errante. Disagi, privazioni e quasi al limite della povertà furono le compagne che segnarono la famiglia. Una nave inglese dopo aver effettuato una lunga rotta nel Mediterraneo si portò nel basso atlantico e sbarcò il deposto imperatore e la consorte Zita nell’isola di Madera.
Il governo portoghese mise a disposizione degli esuli la villa confortevole di  Fuchal ma per ristrettezze economiche nelle quali versava la famiglia essi per esigenza furono costretti a abitare in un’altra modesta abitazione a Villa Quinta del Monte situata in luogo alto e dove non vi era neppure l’energia elettrica, un solo bagno serviva una vasta famiglia. L’umidità della zona, il freddo fecero si che minassero la vita dell’imperatore che colpito da polmonite lasciò serenamente questa terra spirando nel segno della cristianità confortato dalla tenera consorte Zita. Il giovanetto Otto di appena nove anni così ricordava quel tragico evento. Il suo corpo soffriva tanto, ma lo spirito era calmo. I funerali dell’imperatore furono improntati alla semplicità estrema. La bara poggiata su un carretto a due ruote fu portata al cimitero trainata da gente del luogo.
Tutto sembrava precipitare, quando la giovane vedova Zita decise di li a poco che il primogenito dovesse avere una educazione consona al ruolo che in un domani avrebbe potuto ricoprire, secondo il suo pensiero l’Austria aveva gran bisogno di una guida asburgica. Di li a poco tutto l’enturage familiare si rivolse a Otto con l’appellativo di maestà. Mercè l’interessamento del re di Spagna la famiglia si trasferì in quella nazione e Zita fece in modo che il giovane Otto potesse ricevere la formazione studentesca da primari intellettuali fatti venire apposta dall’Austria e Ungheria. Otto ebbe così modo di conoscere e amare il suo popolo tedesco e ungherese unitamente agli altri che si affacciavano sulle rive del Danubio. Gli anni trascorrevano, avvenimenti nella vecchia Europa non erano rari, in Italia il fascismo aveva preso il potere, anni dopo la Germania aveva cominciato a conoscere il nazismo, la piccola Austria era lacerata da sentimenti filo germanici che lasciavano intravedere l’unione dei popoli di idioma tedesco, spinte contrarie erano anche rilevanti. Si era giunti al 1928 quando il sedicenne Otto stava per completare il liceo, la famiglia viveva fra il Lussenburgo e il Belgio dove a Lovanio Otto avrebbe terminato gli studi. Un evento da ricordare fu il compimento dei 18 anni che fu festeggiato alla maniera austriaca e per il solenne avvenimento giunsero delegazioni dall’Austria e dall’Ungheria che resero omaggio al giovane maggiorenne. Nella sua amata Austria intanto si alternavano vari governi che avevano tutti una effimera durata. Fino a quando fu nominato cancelliere Dolfuss che ebbe l’appoggio particolare dell’Italia che temendo l’ingrandirsi della Germania ne appoggiò l’ascesa. Dolfuss fu assassinato poco dopo e il cancelliere che lo sostituì chinò il capo alla potenza germanica.
L’Austria perse l’indipendenza divenendo di fatto parte del Reich col nome di Marca Orientale. Allo scoppio della seconda guerra mondiale la famiglia imperiale trovò asilo negli Stati Uniti. Otto ebbe modo di essere apprezzato conferenziere difendendo in ogni occasione la sua patria.
Quello che venne in seguito appartiene all’odierno c’è da aggiungere che Otto e la famiglia rinunciarono a pretese sul trono d’Austria, e rientrarono nella loro terra. Dal 1974 fu membro del Parlamento Europeo eletto nella CDU tedesca e si è sempre battuto per i popoli che fecero parte del vecchio impero.
Oggi le sue spoglie riposano a Vienna nella Cripta dei Cappuccini mentre il suo cuore è tornato in Ungheria come sempre ha voluto la prassi.
E’ con dolore che noi neoborbonici inchiniamo la nostra bandiera.

Felice Abbondante

martedì 19 luglio 2011

Un prezioso palazzo di Capri

A seguito della segnalazione effettuata dalla Delegazione locale del Movimento Neoborbonico, i Carabinieri di Capri hanno denunciato quattro persone, tra i quali l’amministratore della società proprietaria, per aver effettuato uno sbancamento abusivo in violazione della Legge 1089 (tutela di beni di particolare interesse storico) all’interno del giardino di Palazzo Canale, antica residenza di caccia di S. M. Ferdinando IV di Borbone.
Il palazzo è tra i più importanti ed eleganti dell’isola e non è la prima volta che subisce tentativi speculativi.
Qualche anno fa è emersa dagli Archivi Borbone di Napoli la corrispondenza che Ferdinando IV teneva da Capri con la Regina Maria Carolina.
Grazie alla descrizione minuziosa ed attenta che il sovrano faceva della residenza caprese, si sono potuti riscontrare come erano gli ambienti e quanto è stato modificato.
Oggi arriva la denuncia che evidenzia la necessità che la storica residenza venga finalmente destinata a fini culturali e sociali più consoni alla sua storia ed alla sua autorevolezza.
Certo è che i “nostri” compatrioti di prima linea non perdono mai di vista i monumenti della nostra storia, preziose tracce di un passato che non può essere cancellato a colpi di ruspa o sotto impietose colate di cemento.
Alessandro Romano







lunedì 18 luglio 2011

SUL REGNO DELLE DUE SICILIE

Le convinzioni del presente e le verità del passato.
Riflessioni sul Regno delle Due Sicilie (e sul Sud di oggi).





La stesura del presente contributo è stata ispirata dall'ascolto, su segnalazione di un amico, di una puntata del programma radiofonico La zanzara, in cui il conduttore Giuseppe Cruciani si permetteva di apostrofare pesantemente un ascoltatore, reo di aver definito “glorioso” il soppresso regno borbonico.
Ci sarebbe molto da dire sulle questioni di forma (la sirena d'ambulanza, la sfilza di “ma per piacere” e “non diciamo stupidaggini”, l'ostilità verso il dissenso e il rifiuto del confronto), ma certo che tali cadute di stile si commentino da sé, preferisco concentrami sulla sostanza.
Si può essere patrioti o campanilisti, si può amare l'Italia unita o rimpiangere quel che c'era prima; ciò che conta, a mio avviso, è conoscere i fatti e affermare in ogni caso la verità. Per quanto scomoda possa essere.
Perché è sempre scomodo riconoscere che la storia può aver avuto un altro corso rispetto a quello appreso sui banchi di scuola. E l'immagine che la storiografia ufficiale ci ha consegnato del Regno delle Due Sicilie è molto distante da quella che era nella realtà.
Oggi il Sud è l'emblema della mal'amministrazione; ma prima dello sbarco dei Mille il Regno delle Due Sicilie uno Stato efficiente e moderno, come lo stesso Cavour scriveva nelle sue lettere. Oggi il Sud è sinonimo di arretratezza; ma nel 1860 il regno borbonico rappresentava il terzo Paese più industrializzato in Europa dopo Regno Unito e Francia e molto più del regno sabaudo*. Oggi il Sud è lontano dai ritmi dell'innovazione; ma a metà dell'Ottocento inaugurò la prima ferrovia** sul suolo italiano nonché il primo battello a vapore. Oggi il Sud è una terra povera e con un'economia stagnante; ma prima dell'Unità le casse del Banco di Napoli custodivano 443 milioni di lire dell'epoca, mentre tutte quelle dei restanti Stati preunitari ne contenevano appena 180 milioni. Oggi il Sud riceve soldi e risorse dal resto del Paese; ma dopo la conquista sabauda fu l'amministrazione piemontese a depredare le casse di Napoli per rifondere gli alti costi della guerra. Oggi il Sud è patria della criminalità organizzata; ma nessuno ricorda più le violenze e i soprusi commessi dal nuovo esercito per sottomettere la popolazione. Oggi Napoli affonda tra i rifiuti; ma il primo Paese al mondo ad istituire la raccolta differenziata fu proprio il Regno di Napoli, negli anni venti dell'Ottocento.
Intermezzo necessario: non si vuole mettere in discussione l'Unità d'Italia in sé, quanto il modo in cui è stata fatta. Al netto della retorica risorgimentale, la presa del Regno delle Due Sicilie va osservata per quello che fu davvero: non una spinta di liberazione, ma una guerra di conquista.
Fatti e considerazioni sui quali la cultura italiana non si è mai soffermata a riflettere. Il silenzio che per centocinquant'anni ha coperto la realtà degli eventi non è stato sufficiente (per fortuna) a cancellarne le tracce.
Sui banchi di scuola nessuno di noi si è mai chiesto se le cose fossero andate davvero così come ce le stavano raccontando. Vittorio Emanuele, Cavour, Garibaldi, l'impresa dei Mille. Marsala, Calatafimi, Gaeta. Torino capitale. E poi Porta Pia. E le due Guerre Mondiali. Eravamo troppo giovani, e troppo affascinati dal lato epico delle vicende per alimentare la curiosità del nostro senso critico. E anche se avessimo provato ad alzare la mano per quelle domande che nessuno dei nostri compagni si sarebbe sognato di fare, non avremmo avuto altra risposta che uno sguardo sbigottito e un rimbrotto in tutta fretta.
Altri tempi.

Luca Troiano

domenica 17 luglio 2011

Un'Italia di "Terroni" Indignati.


“Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto…” E’ l’esordio drammatico di un libro-invettiva da un milione di copie. Credevamo di sapere tutto o quasi sulla storia d’Italia e della sua unità, dei sacrifici e delle problematiche che i nostri connazionali vissero, ma Pino Aprile, ex Direttore di importanti settimanali, ci fa comprendere il contrario. Dopo aver letto questo volume nessuno potrà dire “non lo sapevo”. La tesi di fondo, documentatissima, è che i sudisti sono stati vittime di un vero e proprio genocidio da parte dei nordisti: l’impoverimento del Meridione, è la tesi dell’Autore, non fu la conseguenza ma la ragione dell’Unità d’Italia. Che fare? Come ribellarsi all’oppressione dei “nordisti” che considerano i meridionali, rispetto a se medesimi, una sottocategoria umana, politica e sociale? Pino Aprile una soluzione ce l’ha: tornare soli, lavorare a una separazione tra Nord e Sud, insomma la secessione. Una soluzione ben argomentata, appassionante e molto seducente, contenuta nel libro “Terroni”, edito da Piemme e che sarà presentato domani a Ostuni, nel secondo appuntamento della XV edizione della rassegna letteraria “Un emozione chiamata libro”, alle ore 21, nel Chiostro di Palazzo San Francesco. Un libro che è stato già definito un vero e proprio Manifesto per la fondazione del Partito del Sud, perché, nel momento in cui si festeggiano i centocinquant’anni dall’unità d’Italia, il conflitto tra Nord e Sud, fomentato da forze politiche che lo utilizzano spesso come una leva per catturare voti, pare aver superato il livello di guardia. Pino Aprile, pugliese doc, interviene con grande verve polemica in un dibattito dai toni sempre più accesi, per fare il punto su una situazione che si trascina da anni, ma che di recente sembra essersi radicata in uno scontro di difficile composizione. Percorrendo la storia di quella che per alcuni è conquista, per altri liberazione, l’autore porta alla luce una serie di fatti che, nella retorica dell’unificazione, sono stati volutamente rimossi e che aprono una nuova, interessante, a volte sconvolgente finestra nella facciata del trionfalismo nazionalistico. “Terroni” è un libro sul Sud e per il Sud, la cui conclusione è che, se centocinquant’anni non sono stati sufficienti a risolvere il problema, vuol dire che non si è voluto risolverlo. come dice l’autore, le due Germanie, pur divise da una diversa visione del futuro, dalla guerra Fredda e da un muro, in vent’anni sono tornate una. Un libro in cui si dice, ci si chiede e spiega, perché da noi questo non è successo. Pugliese doc, Pino Aprile è nato a Gioia del Colle, la patria del Sergente Romano, che trasformò il brigantaggio in guerra civile e legittimista. Ha vissuto a lungo a Milano dove è stato vicedirettore Di “Oggi” e direttore di “Gente”. Ha lavorato in televisione con Sergio Zavoli nell’inchiesta a puntate “Viaggio al Sud”. Terminata l’esperienza con “Gente”, ha diretto il mensile “Fare Vela” e ha scritto anche un certo numero di libro intorno a questo argomento. E’ inoltre autore di libri tradotti ampiamente all’estero: “Elogio dell’errore” e “Elogio dell’imbecille”. Questo suo ultimo libro, è un testo che analizza il cambiamento sociopolitico di una nazione e che non teme di svelare quelle che sono le realtà scomode, tanto che persino i libri di storia le hanno da sempre taciute. Con linguaggio provocatorio e altamente professionale, Aprile sviscera in maniera concreta i vari punti di forza di questa “messa in scena”. I Meridionali sono stati definiti per decenni facenti parte di una sottospecie in diversi dibattiti e saggi pubblicati negli anni, a riprova di come il Sud fosse un luogo con un alto indice di inferiorità. E, vale la pena ricordarlo, la ribollente galassia dei Movimenti meridionali viene raccontata anche da Lino Patruno, in Fuoco del Sud, il suo nuovo libro, in libreria da qualche mese. Si tratta, anche in questo caso, di un lavoro importante per chi vuol capire cosa stia accadendo nel Mezzogiorno, nel sostanziale disinteresse (che comincia a mutarsi in stupore) del resto del Paese. L’impianto del libro è giornalistico; le ragioni del Sud sono esposte in maniera chiara, divulgativa e consequenziale, dallo stesso autore e dai protagonisti dei Movimenti: 150 anni di storia vengono rivisti, rivelando una storia negata, un’economia squilibrata a danno del Sud, la creazione, a mano armata, di un “Paese duale” che condanna una parte del territorio e della popolazione, il Sud, al ruolo di colonia interna, per sostenere lo sviluppo del resto del Paese. Il maggior pregio del libro di Patruno è proprio il suo valore giornalistico; anche i temi più ostici dell’economia sono resi chiarissimi. Per esempio, Patruno seziona le tappe della costruzione della minorità economica del SUD, calibrandole su quelle della Via Crucis: un espediente molto efficace “Fuoco del Sud” si inserisce nel filone editoriale il cui successo ha sorpreso tutti: quello che spiega la disunità d’Italia, mentre si celebrano i 150 anni dell’Unità. Gli stessi editori erano impreparati a questo fenomeno e i tanti titoli partoriti da autori diversi tocca ogni aspetto della questione. Il libro di Patruno li riassume tutti, indicando percorsi per approfondimenti, perché”se gli uomini taceranno, grideranno le pietre” (sono le ultime parole del libro).

Carlo Di Stanislao

sabato 16 luglio 2011

Quando la camorra aiutò Garibaldi in nome della libertà di delinquere

IL GIORNALE DEL 16 LUGLIO 2011
Editoriale


Quando la camorra aiutò Garibaldi in nome della libertà di delinquere.

La recente ristampa delle Memorie di un garibaldino russo di Lev Illic Mecnikov, a cura di Renato Risaliti (Centro interuniversitario di ricerche sul viaggio in Italia, pagg. 330, euro 29) ci offre una testimonianza meno oleografica e certo più autentica sull’impresa dei Mille. Secondo Mecnikov, infatti, fu solo grazie all’intervento della camorra (guidata dalla «sanguinaria» Marianna De Crescenzio, detta la Sangiovannara) se, il 7 settembre 1860, Garibaldi riuscì a entrare indisturbato a Napoli dove i membri della società criminale si erano assicurati il controllo delle zone strategiche della città, sgominando gli ultimi sostenitori dei Borbone.
Notizie ancora più dettagliate della conversione patriottica della camorra sono contenute nel volume del poligrafo di origine francese, Marc Monnier (La camorra o i misteri di Napoli, pubblicato a Firenze nel 1862). Secondo Monnier, fino alla metà del XIX secolo, l’organizzazione malavitosa aveva sottoscritto un patto scellerato con la polizia, collaborando con essa nella repressione dei piccoli reati, in cambio di una larga tolleranza nei confronti delle sue attività. La camorra, infatti, formava una specie di «polizia scismatica, meglio istruita sui delitti comuni della polizia ortodossa, che si occupava solo dei delitti politici». Se un furto veniva commesso nell’abitazione di un notabile, sosteneva Monnier, «il commissario convocava il capo dei camorristi e lo incaricava di trovare il ladro». Inoltre, la camorra era utilizzata nella «sorveglianza delle prigioni, dei mercati, delle bische, delle case di tolleranza e di tutti i luoghi malfamati della città».
L’intesa cordiale tra quella che amava definirsi la «Bella Società Riformata» e il sovrano delle Due Sicilie s’interruppe però dopo il 1849, quando Ferdinando II decise di avviare una sistematica opera di repressione contro i camorristi. Da quel momento, la camorra si trasformò in «camorra politica» che si pose al servizio del movimento liberale. Il 2 novembre 1859, il nuovo re delle Due Sicilie, Francesco II, era a tal punto intimorito dal pericolo costituito da questa «opposizione criminale» da riferire all’ambasciatore austriaco che tutti gli sforzi del suo governo erano concentrati a impedire che i suoi i capi organizzassero un’insurrezione.
Non si trattava di timori infondati. Nel giugno del 1860, il plenipotenziario inglese a Napoli, Henry George Elliot, informava il Foreign Office che numerose bande camorristiche erano pronte a scendere in campo per contrastare, armi alla mano, la mobilitazione della plebe ancora fedele alla dinastia borbonica. Proprio questo accadde, nei mesi seguenti, quando i membri dell’«onorata società» inquadrati nella «guardia cittadina» dal ministro di Polizia, Liborio Romano (ormai convertitosi alla causa dei Savoia), divennero i veri padroni della città in attesa dell’arrivo di Garibaldi. «Dopo aver reso questi servigi», scriveva Elliot, «i camorristi acquistarono una potenza e un’autorità spaventevole».

venerdì 15 luglio 2011

Evento a Casalduni

TURISTICA
“PRO-LOCO CASALDUNI”

                                                                                                                                               


MANIFESTAZIONI “CASTRUM CASALDONIS EVENTUM”
CASALDUNI:  29 – 30 – 31 LUGLIO 2011

PROGRAMMA    -    29    LUGLIO

  • ORE 19:00                   CASTELLO DUCALE :
-                                             SALUTO AUTORITA’ AI RAPPRESENTANTI DELEGAZIONI
-                                             REGIONALI
  • ORE 21:30                   SPETTACOLO MUSICALE

PROGRAMMA    -    30    LUGLIO

  • ORE 17:30                  LOCALITA’ “SPINELLE” – ALZABANDIERA
  • ORE 18:00                  AUDITORIUM “ALDO MORO”
CONVEGNO:
-                                             1° INCONTRO CON IL PIEMONTE
                                    CASALDUNI E PONTELANDOLFO AGOSTO 1861
                                    TEMA: VERSO UNA STORIA CONDIVISA
-        RELATORI:               UGO CAVALLERA – VICE PRESIDENTE REGIONE PIEMONTE
                                                PASQUALE SQUITIERI – REGISTA
-        COORDINATORE:   PINO APRILE – GIORNALISTA E SCRITTORE
  • ORE 21:00                  RAPPRESENTAZIONE STORICA DEI FATTI ACCADUTI A
                                    CASALDUNI E  PONTELANDOLFO NELL’AGOSTO 1861
  • ORE 22:00  SIMULAZIONE INCENDIO DI CASALDUNI

DOMENICA    -    31    LUGLIO

  • ORE 10:30                   SALUTO DI CONGEDO AI RAPPRESENTANTI DELLE
                                     DELEGAZIONI REGIONALI




Ass.ne Turistica
ProLoco Casalduni
Il presidente Nicola Bove

giovedì 14 luglio 2011

Quando i pesci di Napoli facevano la rivoluzione

La tarantella "''O guarracino" come possibile metafora di tumulti politici.




E' difficile descrivere in breve la storia politica del Sud Italia tra '700 ed '800. Ad un forte sentimento di rivalsa anti-Savoia e di fedeltà ai Borboni (poi sfociato nel brigantaggio) va così affiancata la critica ed il contrasto verso le classi politici originarie.
In tale contesto magmatico si inserisce la Rivoluzione del 1799, che portò alla breve vita della Repubblica Napoletana, le cui idee liberali ed illuministiche furono spente dalla restaurazione del Regno e della monarchia.
Possibile quadro di tale momento di cambiamento ed instabilità è 'O Guarracino. Questo (in italiano traducibile come Lo Guarracino) è il titolo di una tarantella, composta alla fine del 18° secolo e potenziale descrizione o presagio della rivoluzione. Politica a parte, 'O Guarracino è un classico della canzone popolare napoletana, reinterpretato da voci come Massimo Ranieri e la Nuova Compagnia di Canto Popolare.
Di base, è la storia parla di amori e ripicche: una sardella lascia un allitterato (tonnetto) per mettersi col protagonista, il guarracino (coracino). Il precedente compagno non si rassegna e la sua rabbia scatena tumulti tra le due fazioni di pesci.
Il testo di 'O Guarracino è ricco di potenziali rimandi politico-sociali e di spicchi della vita dell'epoca, come la descrizione dei capelli alla "Kaunitz" ("alla caunizza") portati dal Ministro Maria Teresa d'Austria.


Ma più di tutto la tarantella è una spettacolare collezione dei prodotti ittici: oltre ai tre protagonisti vengono enumerati altri esemplari, palamete e raje petrose, sarache, dientece e d'achiate, scureme tunne e allitterate, pisce palummo e piscatrice, scuorfane cernie e alice. Un vero e proprio trattato informale di ittiologia: perchè Napoli ed il suo Golfo, aldilà di repubblicani o monarchici, è in primis terra (ed acqua) di pesca.


LEGGI il testo della canzone (da Wikipedia.it)
VIDEO de 'O Guarracino di Massimo Ranieri (Youtube)


Matteo Clerici

mercoledì 13 luglio 2011

POMPEI, trattative con i francesi per salvare gli scavi







di Concetta Ruotolo.
Si cercano nuove soluzioni per salvare il preziosissimo sito archeologico di Pompei, che necessita di urgenti interventi di manutenzione e ristrutturazione. In seguito ai, dopo tante sterili polemiche e ridicoli tentativi di trovare un responsabile da accusare per lo stato di degrado degli scavi, nel mese di Giugno si è finalmente passati ai fatti con l’approvazione del “Piano Cecchi”, che prevede lo stanziamento di 105 milioni di euro per finanziare i lavori necessari. Negli ultimi tempi, però, sembra che l’interesse nei confronti di Pompei sia cresciuto tanto da far pensare a finanziamenti privati provenienti dall’estero. Il direttore generale per la valorizzazione del patrimonio culturale del Mibac, Mario Resca, fa sapere che alcuni imprenditori francesi vorrebbero contribuire ai futuri interventi di recupero, investendo circa 200 milioni di euro nei prossimi dieci anni. Secondo la legge francese, i privati che decidono di investire nei beni culturali possono usufruire di vantaggi fiscali (una detrazione del 60%) che la Francia applica per la tutela di monumenti di interesse nazionale e che possono essere utilizzati in tutta Europa. L’unico problema, però, starebbe nel trovare un accordo tra questi finanziatori ed il Mibac; la garanzia chiesta dai Francesi, che garantirebbero al nostro paese anche il supporto tecnico di esperti del settore, è che sia l’Unesco a controllare le operazioni, per monitorare i tempi e le modalità dei lavori. Dal Mibac, però, sottolineano che per ora l’accordo non è ancora ufficiale e che, qualora l’ipotesi di una collaborazione divenisse concreta, si cercherebbe un accordo per conciliare i fondi europei del “Piano Cecchi” e l’investimento francese con la supervisione dell’Unesco. Se venissero accettati i contributi degli industriali d’oltralpe, non sarebbe la prima volta che il sito pompeiano beneficia dell’aiuto francese, che diede un notevole impulso all’archeologia locale già nei lontani anni del dominio napoleonico. Pompei, infatti, è sempre stata un inesauribile bacino di tesori e tracce di un passato misterioso ed affascinante. La storia degli scavi, iniziata nel 1748, all’epoca di Carlo di Borbone, re del Regno delle Due Sicilie, è stata sin dagli esordi tanto affascinante quanto intricata. All’inizio, infatti, alcuni importanti reperti sono finiti nelle mani di collezionisti ed avidi sciacalli che hanno visto nella riscoperta della città sepolta dall’eruzione del Vesuvio una facile occasione di guadagno ed arricchimento personale. Le tecniche di scavo dell’epoca, inoltre, non erano ovviamente sviluppate come quelle successive e sono stati commessi alcuni errori, come decidere di asportare parte dei dipinti, per trasportarli a Napoli ed esporli lì. Col passare degli anni, però, divennero più chiari il potenziale ed il valore della ricerca archeologica, che iniziò ad acquisire prestigio ed autonomia scientifica. Durante il successivo periodo della dominazione francese, vennero intensificati i lavori di scavo, cercando di portare alla luce nuove bellezze nascoste. I lavori, comunque, pur con ritmi meno intensi, proseguirono anche dopo il ritorno dei Borbone; risalgono, anzi, proprio a questo periodo il ritrovamento del “Mosaico di Alessandro” e della “Casa del Fauno”, ancora oggi oggetto di grande fascino ed interesse. E’ solo dopo l’unità d’Italia, però, che si ebbe una svolta decisiva negli interventi su Pompei, grazie anche all’impiego di tecniche di scavo che diventavano più accurate e sofisticate. Bisogna aggiungere, comunque, che proprio in questo periodo iniziarono le concessioni di scavo ai privati, che comportarono un nuovo traffico di opere legato ad interessi economici più che culturali. E’ solo in epoca più o meno recente, dopo il 1960, che l’approccio al sito è nuovamente cambiato e le attività di scavo vero e proprio sono diventate a poco a poco meno intense per essere affiancate o in alcuni casi sostituite da interventi di manutenzione e restauro, diventati ancora più numerosi dopo il terremoto del 1980. Fu proprio per riparare ai danni di questa sciagura che venne riconosciuta a Pompei la possibilità di accedere a speciali finanziamenti per evitare la paralisi dei lavori. Con l’accordo francese di cui si mormora, quindi, si avrebbe un ricorso storico, che sarebbe ben accetto perché è in ballo la tutela di un bene di inestimabile valore, patrimonio dell’umanità e che tutto il mondo ci invidia.

martedì 12 luglio 2011

UN PARTITO NEOBORBONICO AL SUD

 
Giuseppe Galasso, in un suo recente intervento sul Corriere della Sera, scrive dei rischi di un “PARTITO NEOBORBONICO AL SUD” e di “una deriva borbonizzante dilagante”: pur riconoscendo che certe idee stiano effettivamente dilagando se guardiamo al successo di molte iniziative editoriali e anche alla qualità e alla quantità di coloro che le stanno diffondendo, perché parlare di “deriva”? Solo perché si tratta di tesi non condivise dalla cultura ufficiale di cui Galasso era ed è autorevole esponente? Si definisce “borghese” questa “marcia”: al di là della relatività di certe categorie, si può definire “borghese” la massa enorme di soggetti (soprattutto giovani) di ogni estrazione sociale e culturale che in questi anni hanno “socializzato” la simbologia borbonica come segno di orgoglio e di appartenenza magari sugli stadi o che magari leggono e citano il libro di Pino Aprile (il best-seller “Terroni”) nei dibattiti o nelle scuole? Galasso, dopo 150 anni, continua a negare la conquista, il saccheggio, i massacri subiti dal Sud e realizzati da un “Nord cresciuto e arricchitosi con la rapina” del 1861. Per capire, invece, che queste tesi “neoborboniche” hanno più di un “fondamento storico”, basterebbe dare un’occhiata ai famosi depositi di tutte le banche italiane messe insieme all’atto dell’unificazione (668 milioni di lire di cui 443 nelle banche meridionali) o alla quantità di bonifiche realizzate negli ultimi dieci anni dal governo borbonico (e superiori a quelle realizzate dai governi italiani in tutto il Novecento) o alla “busta 60-fondo Brigantaggio” dell’archivio dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano (con le circolari che suggerivano agli ufficiali sabaudi di evitare “la pratica della decapitazione dei cosiddetti briganti diffusa per comodità di trasporto”) o calcolare il numero delle “vittime” del brigantaggio stesso partendo magari dai (parziali) dati dello stesso Molfese per arrivare (tra uccisi in battaglia, processati, deportati nei lager del Nord, incendi di boschi, casali o masserie) a cifre intollerabili in un paese civile oppure spulciare i dati dello Svimez appena ripubblicati e relativi al PIL o la livello di industrializzazione pari o (in alcune aree) superiore nel Sud rispetto al Nord al 1861 con un divario che cresce (perché mai, visto che fino ad allora non eravamo “inferiori”?) in maniera vertiginosa fino ad oggi.  Nessun “partito neoborbonico” e nessun “re da aspettare a Santa Lucia”, ma dopo 150 anni di una secessione che esiste di fatto (e forse è poco visibile dall’alto delle cattedre universitarie o delle ville a Posillipo) e con una Lega Nord al potere centrale e locale da decenni, quali ulteriori rischi correrebbe il Sud? In questo ipotetico “partito neoborbonico” ci sarebbero, per Galasso, “troppi galli a cantare” e mancherebbe un “duce in stile Bossi”, ma questa sarebbe solo la dimostrazione della diffusione di un simile movimento e anche della sua qualità in assenza (per fortuna) di un “duce in stile Bossi”. Lo stesso partito, in conclusione, sulla scorta di quello che avvenne (oltre mezzo secolo fa!) con il “partito di Lauro” procurerebbe “danni e macerie” come se le classi dirigenti e la cultura ufficiale (di cui Galasso era ed è autorevole esponente) anche post-laurina avessero procurato a Napoli (!) e al Sud “vantaggi e primati”... Dopo 150 anni di subalternità e di rassegnazione assecondate da classi dirigenti complici, colpevoli e interessate, quali sarebbero i rischi, allora, di questa “euforia borbonica”? E se ripartissimo proprio con classi dirigenti più fiere, radicate, arrabbiate, degne di rappresentare i meridionali a differenza di quelle formate (da chi?) nel corso della nostra storia e pronte, finalmente a chiedere pari diritti in un’Italia veramente e finalmente unita?
Prof. Gennaro  De Crescenzo

lunedì 11 luglio 2011

L'OPINIONE


Cazzullo? 150 anni di calunnie…

di Antonio Perrucci

Nel mentre un’allegra compagnia dei soliti noti, riunita al Circolo Savoia,si sbizzarriva nella ricerca dei più altisonanti aggettivi da accostare alla figura di Cavour nella corsa al più meritevole e quindi al più lecchino della storiografia risorgimentale, a scombinare il tutto ecco d’improvviso l’intervento di un certo Aurelio De Laurentis, presidente del Napoli calcio e purtroppo napoletano e sudista verace.
Il De Laurentis ha osato definire Garibaldi uno scippatore delle ricchezze del Sud, un mariolo una testa di legno, longa manus dei suoi mandanti e reali saccheggiatori oltre che assassini dei meridionali: la razza maledetta dei Savoia. Reazioni a dir poco isteriche quelle dei custodi delle sacre verità risorgimentali, i Galasso, i Galli Dalla Loggia lo stesso presidente della Laterza (editore del libro su Cavour), ma quella che più ha colpito è stata dello storico (solo perché docente universitario?) e meridionale Luigi Compagna il quale quasi un “galantuomo” del 1860 scrive: “ i Napoletani gli chiedono (a De Laurentis) un interessamento ai problemi di Napoli e non alla storiografia”.
Già, è vero, i Napoletani e il Sud non stiano a porsi domande sul passato, troppo ignoranti, inutile star loro a spiegare o approfondire quanto gli abbecedari delle scuole primarie inculcano da 150 anni, con la complicità e/o l’infingardaggine di schiere di docenti ignoranti e supponenti.
Infatti solo considerando ignoranti i propri lettori che un certo Cazzullo dalle pagine del Corsera (da non confondere con il Corsera di Albertini) può dare stura alla serie delle “cazzullate” e rimpolpare una già copiosa “cazzulleide”.  Infatti il nostro fine scrittore sul Corsera del 15 c.m. spara ad alzo zero contro De Laurentis reo di tentato revisionismo contro le oramai note anche ai bambini “puttanate risorgimentali”. E così il piemontese Cazzullo, tra una spalmata di nutella e un gianduiotto tra i denti difende quell’anima prava di Garibaldi, negriero, ladro del denaro del Sud e massone per chi scrive, eroe senza macchia e senza paura per il savoiardo corrierista e carrierista, un sacco di fave, una cassa di baccalà poche sementi e l’esilio di Caprera, acquistata con i ricavi del commercio di schiavi cinesi.
Basta con Garibaldi, c’è di meglio se un Cazzullo arriva a scrivere che si è vero che il Sud aveva più oro di tutti gli Stati preunitari ma che era oro del Re delle Due Sicilie e non dello Stato. Basterebbe questo per chiedere all’ordine dei giornalisti la radiazione di Cazzullo per 30 anni. E comunque quei 443 milioni di lire in oro fu depredato e da Garibaldi e in massima parte dai virtuosi piemontesi,ma su questo il Cazzullo sorvola. Cavour in testa. L’appannaggio di quel macellaio di Vittorio Emanuele II era ben superiore a quello della regina Vittoria, inoltre i Savoia si appropriarono anche dei beni personali del Re Francesco II e della dote delle sue sorelle principesse Borbone Due Sicilie.
Un Borbone non era un Savoia come il nano Vittorio Emanuele III il quale depositava i suoi denari presso la banca di Inghilterra e addirittura acquistava titoli del “ Prestito della Vittoria” emesso dalla Gran Bretagna per finanziare la guerra, un Savoia che prestava soldi ad un nemico contro i suoi soldati. Un savoiardo, un piemontese, un’icona di Cazzullo. E dopo i soliti richiami alla ferrovia Napoli Portici (un giocattolo del Borbone), e solite amenità varie, ecco da parte del Cazzullo la carezza sempre pelosa verso Napoli e il Sud. Un richiamo alla Napoli di Eduardo,alla fantasia, all’estro e alla creatività di questa città, senza sorvolare sull’ostilità dei meridionali verso lo Stato e sullo scarso senso civico. Insomma la solita solfa, da una crisi si esce tutti insieme o non se ne esce affatto. Parole sante caro Cazzullo, ma sono solo parole. Da 150 anni siamo stati esclusi da ogni possibile rinascita del Sud ( dopo il crollo provocato da rapine nordiste e 10 anni di guerra), da 150 anni siamo stati sfruttati e calunniati. Se 150 anni orsono, borghesia agraria meridionale e finanza padana strinsero quel patto scellerato che metteva fine ad al Regno, oggi dopo un secolo e mezzo quel patto è sempre più forte e lega la lobby economico finanziaria padana ad una classe politica del Sud incapace e servile. De Laurentis? Magari.

domenica 10 luglio 2011

LA VERA STORIA DI CARLO PISACANE


IL 27 LUGLIO DEL 1857 PISACANE A PONZA
UCCISE SENZA PIETA’
UNA TRISTE STORIA DA NON DIMENTICARE


Coloro che alimentano la retorica risorgimentale, si concentrano esclusivamente sulle date degli avvenimenti che anno per anno si avvicendano in un accavallarsi di eventi e di iniziative poco partecipate, poco capite, ma estremamente remunerative per organizzatori ed organizzati.
E’ proprio di questi mesi il gran da farsi per celebrare, commemorare, ricordare, esaltare improbabili eroi impegnati in partenze, sbarchi, vessilli al vento, canti, balli e colori di una storia tutta da riscrivere. Nuovi eventi che lasciano alle spalle eventi ormai abbondantemente “sfruttati”.
Come si ricorderà nel 2007 fu celebrato in pompa magna il “mitico” disertore e traditore tradito nonché disperato Carlo Pisacane. Anche in quell’occasione numerosi e costosi furono gli eventi organizzati, tutti rigorosamente di parte, dove la voce di chi dissentiva, nonostante brandisse documenti e prove inoppugnabili, venne sistematicamente ignorata e soffocata dai soliti giornalisti “ciucci e venduti”.
Ora che il 2007 è ben lontano, noi legittimisti senza tregua e ne date continuiamo a ricordare, ad impegnarci nella ricerca e nella diffusione della verità commemorando i veri eroi che caddero in difesa della vera Patria e del Popolo.
Infatti a Ponza, dove le conseguenze di una rivolta senza senso innescata in modo criminale, aprendo le galere dei peggiori delinquenti ed assassini, nonostante il vento della retorica sia gia transitato, proprio in questi giorni si sono ricordati nuovamente quegli eventi luttuosi, scoprendo un lapide che ricorda uno di quei giovani eroi, Cesare Balsamo che per aver osato contrapporsi con coraggio e sprezzo del pericolo a quell’accozzaglia di sanguinari delinquenti guidata da Carlo Pisacane, fu trucidato senza pietà.
Dopo tre anni di continue pressioni, con l’intervento supremo di chi ha deciso che è ora di porre termine alla stagione delle menzogne, a Ponza finalmente è stata resa giustizia e soddisfatta la verità.
Un plauso all’assessore del Comune di Ponza Mario Aversano che ha concesso l’installazione della lapide commemorativa, ma soprattutto un sentito grazie ai compatrioti e colleghi del Movimento che sono stati i testardi promotori ed i generosi sovvenzionatori dell’iniziativa: gli amici fraterni Franco Schiano ed Armando Raponi.
Inoltre un sentito grazie anche agli amici e compatrioti di sempre Alfredo Scotti e Alessandro Bonifacio che hanno dato la propria autorevole disponibilità alla riuscita della non facile impresa.
Adesso anche un eroe borbonico ha un nome ed una tomba di tutto onore presso la quale deporre un fiore.


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ALL’ISOLA DI PONZA SI E’ FERMATA
La vera storia di Carlo Pisacane
che i libri di scuola non hanno mai voluto raccontare.

di Alessandro Romano



Conosciamo tutti la storia di Carlo Pisacane che, partito da Genova con 26 uomini, raggiunse prima la colonia penale di Ponza per imbarcare 323 galeotti e, quindi, proseguire per Sapri dove, scontratosi più volte con la popolazione, fallì nel suo intento di innescare la rivoluzione nel sud Italia.
Altrettanto conosciamo la famosa “Spigolatrice di Sapri”, patetica poesia di Luigi Mercantini che, insieme alla storiografia ufficiale, contribuì ad infondere alla piratesca impresa un alone di misticismo teso a sfruttare, per fini risorgimentali liberal-monarchici, tra l’altro ben lontani dalle teorie politiche del Pisacane, il fallimento della spedizione.
Al di là delle controversie ideologiche che sono tuttora oggetto di accesi dibattiti, appare invece interessante soffermarsi su un aspetto trascurato ma sicuramente importante dell’intera impresa: lo sbarco a Ponza.
Negli stessi versi del Mercantini troviamo che la nave a vapore “all’isola di Ponza si è fermata, è stata un poco poi è ritornata”. Cosa esattamente accadde nell’Isola in quel “poco” né il poeta né la storiografia ufficiale lo dicono.
Invece un’analisi dei fatti isolani risulta fondamentale per comprendere i veri motivi del fallimento politico e “militare” della “storica spedizione” e le reali cause della reazione violenta delle popolazioni meridionali contro chi andava “... a morir per la Patria bella”.
Il 27 giugno del 1857 a Ponza vi era una gran calura, il mare era calmo e nel cielo splendeva un sole estivo senza precedenti. Alle ore 15 tutta l’isola era impegnata nella quotidiana siesta: i Ponzesi, i detenuti del bagno penale, i militari addetti alla loro sorveglianza, i relegati in semilibertà: tutti dormivano.
Nella rada del porto, di fronte alla batteria “Lanternino”, apparve ed accostò lentamente una enorme e bella nave a vapore dal nome in oro: “Cagliari”. Non issava la bandiera tricolore, come dice il Mercantini, bensì la “bandiera rossa” di avaria alle macchine. Stancamente dal porto mosse una lancia che accostò all’inconsueta nave per parlamentare ed offrire assistenza secondo le regole marinare. Quella dell’avaria fu solo uno stratagemma per prendere degli ostaggi. E funzionò. Il Pisacane, accompagnato dai compagni armati di fucili e pistole, sbarcò con la stessa lancia aggredendo la guarnigione portuale ed intimando la resa, pena la morte degli ostaggi trattenuti sulla nave. Nonostante le minacce, alcuni militari del presidio reagirono prima di arrendersi generando un vivace conflitto a fuoco che causò morti e feriti. Gli echi dello scontro ruppero il silenzio pomeridiano e la gente, destata di soprassalto, raggiunse incuriosita le finestre, i balconi ed i tetti per osservare cosa stesse accadendo al porto. Il gran trambusto, gli spari, il fermento di uomini, divise e bandiere mai viste prima di allora fecero emergere nella mente dei Ponzesi un ricordo antico e tremendo: i pirati. Terrorizzati, cominciò un fuggi fuggi generale in un crescente panico che, in breve, fece perdere la calma anche a chi non sapeva cosa stesse esattamente accadendo. Isolani, militari e relegati in regime di semilibertà scappavano per ogni dove a cercare un nascondiglio sicuro. Mentre il Pisacane raggiungeva il quartier generale presso la Torre di Ponza, ponendolo in assedio ed intimandone la resa, i suoi compagni, Giovanni Battista Falcone e Giovanni Nicotera, issarono una bandiera rossa nella piazza principale e quindi, a gran voce, cominciarono a dar spiegazioni di quanto stava accadendo. Ripresosi dallo spavento si affacciarono timidamente dapprima i relegati in semilibertà e quindi i residenti che, comunque diffidenti, si mantennero a distanza di sicurezza.
Ma quelle teorie politiche così lontane dalla realtà del popolo non attecchirono anzi causarono sgomento e maggior timore. Addirittura reazione quando il Falcone, con dire sicuro e sprezzante, inveì contro la religione, il re e le terre demaniali. I Ponzesi solo sette giorni prima avevano celebrato solennemente il Santo Patrono Silverio e le parole dissacranti del Falcone non piacquero affatto. Inoltre a Ponza, così come in tutte le regioni del sud, i contadini coltivavano le terre demaniali quali usi civici loro assegnati gratuitamente come beni provenienti dallo smantellamento graduale degli antichi feudi. Essi sfruttavano terreni dello stato in “enfiteusi perenne” tuttavia senza divenirne mai veri proprietari. Una specie di “sistema comunista” ante litteram. Sconvolgere quel delicato equilibrio, che comunque assicurava la vita, la pace e la giustizia sociale, spaventò i Ponzesi ancor più dei pirati tanto che, alla chetichella, lasciarono il luogo della riunione per vedere il da farsi. Intanto i rivoluzionari infervorati dai loro stessi discorsi parlavano di repubblica e di fantomatiche rivolte a Napoli, Roma, Genova, Livorno e Reggio Calabria ed alcuni militi della “compagnia disciplina” relegati a Ponza sembravano dar credito a quelle parole. Ma ciò non bastava a Pisacane: egli aveva bisogno di far scattare sul serio la scintilla della rivolta generale, non limitarsi a fare un comizio in quella semideserta ed ambigua piazza isolana. Avrebbe voluto cominciare proprio da Ponza la sua rivoluzione coinvolgendo la popolazione di quella sperduta isola, estremo confine dello Stato Napoletano, per poi sbarcare lungo le coste e propagare i moti. Pisacane ben presto si rese conto però che nonostante i suoi incitamenti proprio la popolazione non c’era. Ignorando i veri motivi di quella defezione, pensò di riuscire a coinvolgere tutti con l’azione e l’esempio innescando lui stesso la scintilla della rivolta. Per rendere la cosa più coinvolgente la scintilla la fece partire proprio da dove si governava la popolazione: gli uffici del Comune. Qui Giovanni Nicotera, futuro Ministro dell’Interno dello Stato Unitario, dopo essersi impossessato della cassa del Comune appiccò il fuoco agli archivi ed all’antica biblioteca dei monaci Cistercensi quindi, guidato dai relegati in semilibertà, fece il resto assaltando il dazio ed il giudicato (la pretura). Ma, com’era prevedibile, fu peggio: i Ponzesi presi da maggior sgomento si rinchiusero a doppia mandata nelle case e nelle caverne poste sulla sommità del Monte Guardia.
Il Pisacane, innervosito, deluso e disperato dall’atteggiamento di quella “strana popolazione a cui non andava di rivoltarsi contro il tiranno”, aprì i cancelli del bagno penale della “Parata” che allora accoglieva circa 1800 delinquenti comuni.
Una minacciosa turpe di individui invase vicoli e strade come un torrente in piena. I loro zoccoli crepitavano sul lastricato ed il brusio iniziale diventò man mano un vociare sguaiato e terrificante. Anni di lavori forzati, rabbia repressa mista ai più profondi e bestiali istinti avevano trasformato quegli uomini in belve dai lineamenti vagamente umani.
Il paese fu messo a ferro e a fuoco da quei forsennati: gli spari, le violenze, le urla, i lamenti echeggiarono per molte ore. Il fumo soffocante degli incendi propagatisi fino ai vigneti ed agli uliveti delle colline, contribuì a rendere ancora più tremendamente infernale quella notte di anarchia.
Il Pisacane, per inibire ogni reazione contro la sua operazione, si era preoccupato sin dallo sbarco di prendere in ostaggio il comandante della guarnigione Magg. Antonio Astorino ed i suoi ufficiali ma non pensò al prete: Don Giuseppe Vitiello. Questi, di fattezze minute ma di una furbizia ed un temperamento fuori da ogni immaginazione, comprese immediatamente la natura e gli intenti di quegli uomini. Già dallo sbarco, senza perdere tempo e, soprattutto, senza perdersi d’animo, si era dato da fare per creare una vera e propria linea difensiva a metà isola, raggruppando gendarmi e civili, impedendo così che il Pisacane ed i detenuti del bagno penale ormai liberi dilagassero su tutto il territorio isolano causando ben maggiori danni. Grazie alla prontezza del parroco, figura emblematica e vero eroe ponzese dimenticato, parte della popolazione poté mettersi in salvo raggiungendo anche a nuoto la zona nord dell’isola. Don Giuseppe, inoltre, ordinò un’incursione notturna per l’affondamento silenzioso delle imbarcazioni risparmiate dai rivoltosi ancora galleggianti ed all’ancora nel porto, per evitare fughe di massa ed, infine, organizzò un equipaggio che, con una lancia forte di 8 remi comandata da Ignazio Vitiello, partì alla volta di Gaeta per dare l’allarme e chiedere aiuto.
Fallita la rivolta popolare, il Pisacane si preoccupò di reclutare tra i relegati stessi quanta più gente possibile per lo scopo primario della sua missione: lo sbarco a Sapri. Ma anche questa volta la sua delusione fu tanta. Oltre alla diserzione dei ponzesi, di quelle migliaia di detenuti solo pochi si fecero avanti e nei volti di quei pochi si leggeva l’unico e vero obiettivo: raggiungere il continente per darsela a gambe. La maggior parte dei forzati che accettarono di seguire la spedizione erano di Sapri e dintorni, essi si erano macchiati di crimini e violenze di ogni genere e pertanto condannati ad espiare la loro pena ai lavori forzati nel bagno penale di Ponza. Gli altri preferirono restare ed accontentarsi di quella inaspettata ed insolita festa. Infatti, molti relegati dopo aver abusato di vino, cibo, canti, balli e violenze si disseminarono lungo spiagge, grotte e campi per abbandonarsi in un profondo sonno. Molti altri, alle prime luci dell’alba, rientrarono prudentemente nel bagno penale. Fatto giorno lo spettacolo era raccapricciante, ma Don Giuseppe, come al solito, non si perse d’animo. Assicuratosi che il Pisacane fosse effettivamente ripartito, fece liberare il comandante della guarnigione, gli ufficiali, i graduati ed il resto della gendarmeria che immediatamente si diede a riacciuffare qua e la i relegati ormai fiaccati dai bagordi notturni. Si spensero gli incendi, si recuperarono le masserizie e le suppellettili, si risistemò alla meglio la chiesa, si recuperarono gli animali, si ritirarono su le imbarcazioni, si aprì l’infermeria ai feriti, si ripulirono le strade e le piazze, fu issata la bandiera sulla Torre. Nel frattempo arrivò una nave da guerra che sbarcò alcune centinaia di militari con il compito di completare la bonifica ed arrestare i più ostinati ancora barricati e nascosti nelle campagne e negli anfratti.
Intanto il Pisacane ed i suoi trecento sbarcavano a Sapri, ma qui la popolazione non stava facendo la siesta come a Ponza, anzi fu molto arguta a riconoscere tra quegli “eroi” gli artefici di abominevoli delitti e non esitò ad imbracciare forconi e schioppi e, come il Mercantini recita: “eran trecento erano giovani e forti e sono morti”.
Fu una vera e propria carneficina, il preludio dell’enorme tragedia che dopo qualche anno investì il meridione d’Italia, preda della sanguinosa e devastante conquista militare del Piemonte, che vide la disperata reazione armata dei contadini del Sud che poi “scrittori salariati tentarono di infamare con nome di briganti" (Gramsci).

 





Ponza dell'800





Carlo Pisacane prima della partenza





Il popolo uccide Pisacane ed annienta la banda