venerdì 30 dicembre 2011

Il Corriere delle Due Sicilie





Diamo inizio alla diffusione da questa Rete dei notiziari del Corriere delle Due Sicilie, curato e diretto dal compatriota dott. Lorenzo Terzi.
In questo numero sono elencati gli impegni sostenuti su tutto il territorio dai nostri attivisti negli ultimi 3 mesi.






giovedì 29 dicembre 2011

Messa in suffragio di Francesco II a Napoli




Come precedentemente annunciato, su iniziativa del Movimento Neoborbonico e dell´Editoriale Il Giglio, martedì 27 dicembre si è tenuta a Napoli, nella Chiesa di San Ferdinando di Palazzo, la SS. Messa in suffragio dell´Anima santa di Francesco II di Borbone, ultimo Re delle Due Sicilie, nell´anniversario della sua morte avvenuta il 27 dicembre 1894.
La SS. Messa, in rito romano antico, è stata celebrata dal Rettore di San Ferdinando, Don Pasquale Silvestri, che all´omelia ha ricordato la bontà d´animo dell´ultimo Re di Napoli, testimoniata dalle opere compiute nel suo breve regno e la sua devozione per la Madonna.
Presente al rito sacro una moltitudine di amici, compatrioti e gente del Popolo, quindi i vertici ed alcuni delegati territoriali del Movimento, guidati dal Presidente prof. Gennaro De Crescenzo, nonché i responsabili dell´Editoriale Il Giglio, con la dott.ssa Marina Carrese, i Cavalieri del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio guidati dal marchese Pierluigi Sanfelice di Bagnoli, Delegato di Napoli del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio: tutti accolti fraternamente dal Cav. Marco Crisconio Vicepriore dell´Arciconfraternita di San Ferdinando di Palazzo (il Priore è S.A.R. Carlo di Borbone).
Ad aprire la celebrazione è stato il marchese Pierluigi Sanfelice di Bagnoli che ha letto  il messaggio inviato dal S.A.R. il Principe Carlo di Borbone delle Due Sicilie.
Al termine della SS. Messa, il presidente del Movimento Neoborbonico, il prof. Gennaro De Crescenzo, ha tenuto una breve, ma incisiva allocuzione sulla figura del Sovrano e della sua augusta Dinastia che tanto ha fatto per la nostra Terra e per la nostra dignità. Egli, in particolare, ha ricordato le commoventi parole del manifesto dell´8 dicembre 1860 scritto a Gaeta da Francesco II: «Io sono napolitano, nato in mezzo a voi, io non ho respirato altra aria, non ho veduto altri Paesi, non ho conosciuto che solo la mia terra natale. Ogni affezione mia è riposta nel Regno, i costumi vostri sono pure i miei, la vostra lingua è pure la mia, le ambizioni vostre son pure le mie [...]. Mi glorio di essere un principe che, essendo vostro, ha tutto sacrificato al desiderio di conservare ai sudditi suoi la pace, la concordia e la prosperità».
«Ricorderemo la sua morte noi e quelli che ci seguiranno - ha detto il presidente del Movimento Neoborbonico - perché Napoli e il Sud sono nelle stesse condizioni, anche peggiori, nelle quali ci ridusse l´unificazione italiana».
Ha presenziato la celebrazione un Picchetto d´Onore dei Cavalieri dell´Ordine Costantiniano di San Giorgio della Delegazione di Napoli, guidati dal Dott. Luigi Andreozzi.
A conclusione della cerimonia, il soprano Ellida Basso, accompagnata all´organo dal maestro Giuseppe D´Errico, ha cantato l'Inno Nazionale delle Due Sicilie in un´atmosfera di profonda partecipazione e di forte commozione.

Cap. Alessandro Romano


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Cronache di Napoli del 28 dicembre 2011




Il marchese Pierluigi Sanfelice di Bagnoli
legge il messagguio di S.A.R. carlo di Borbone delle Due Sicilie






La SS Messa



Il Picchetto d'Onore dell'Ordine Costantiniano di San Giorgio



I Cavalieri ed i convenuti






L'allocuzione su S.M. Francesco II
tenuta del Presidente del Movimento Neoborbonico prof. Gennaro De Crescenzo










martedì 27 dicembre 2011

Prossimi Eventi

A LATINA

Giovedì 29 dicembre 2011, alle ore 17.30, a Latina, presso la Sala Consiliare Cambellotti del "Palazzo del Governo", in Piazza della Libertà n. 48 si terrà la presentazione del libro di Guido Vignelli e di Alessandro Romano, edito Il Giglio, "PERCHÈ NON FESTEGGIAMO L´UNITÀ D´ITALIA".
Animerà l´incontro Rossana Carturan: è molto gradita la presenza di amici e compatrioti.




Il nuovo volume de Il Giglio è l´operazione-verità che andava assolutamente fatta in questo anno di "celebrazioni" e che gli autori, Guido Vignelli e Alessandro Romano, hanno compiuto perfettamente, con ricerche d´archivio e testimonianze d´epoca che forniscono un quadro dei fatti del 1860-61 molto diverso dalle immaginette risorgimentaliste che la propaganda sta propinandoci a piene mani.
Dalle pagine dei due saggi che lo compongono emerge un'unica verità, inoppugnabile: il Risorgimento fu una rivoluzione, pensata e preparata per motivi esclusivamente ideologici, finanziata dalla massoneria internazionale e da potentati economici locali che "pensavano all´inglese e parlavano francese", voluta da pochi contro intere popolazioni.
La rivoluzione italiana fu realizzata con la violenza delle rivoluzioni e con il furore dell´ideologia e fu animata da una devastante carica anti-cattolica, anti-tradizionale, e alla fine anti-italiana, perseguendo l´unico obiettivo di costruire uno Stato, cioè un´entità amministrativa, che avesse il potere di cancellare tutto quello che millenni di storia avevano composto e sviluppato in termini di civiltà, di scienza, di arte, di lingua, di costume, di diritto, di società, di mutua carità, di equilibrio tra attenzione al particolare e all´universale ereditato dalla romanità e dalla cristianità, e che costituiva l´autentica identità italiana.
Quella identità nata dalla tradizione storica e depurata dalla fede cattolica, che accomunava i diversi popoli della penisola, li distingueva dal resto dei popoli europei e li univa realmente nel rispetto delle singolarità e del retaggio di ciascuno espresso dai Regni preunitari.
Il risultato della rivoluzione italiana fu la cancellazione della cultura italiana, per sostituirla con una funzionale agli interessi di quei potentati che ne avevano deciso le sorti e che trovavano un ostacolo insormontabile nel perdurare dei legami naturali che uniscono gli uomini tra loro, come la famiglia, la tradizione, la patria.
Non fu per caso che l´unico Regno della penisola ad essere attaccato militarmente fosse quello delle Due Sicilie: il suo popolo aveva già dato prova dell´attaccamento alla propria identità, alla Casa regnante ed alla patria, quando nel 1799 insorse contro l´invasore francese.
Alla luce di quella esperienza, i rivoluzionari del 1860 sapevano che contro il Sud bisognava sferrare l´attacco più violento. E così fu. Ciò che seguì, furono 10 anni di lotta tenace e di repressione feroce e la dispersione in ogni angolo del mondo di milioni di Meridionali.
L´unificazione condotta contro i popoli italiani fu la radice di quelle ferite aperte e mai rimarginate: la questione istituzionale, la questione meridionale, la questione cattolica, e - buona ultima - la questione settentrionale. Fu la radice dei "mali italiani" - etici, culturali, politici ed economici - della mancanza di un´identità nazionale, della demonizzazione e dell´emarginazione di intere parti del Paese, fondata sulla pretesa superiorità morale di chi ha fatto l´unità e soprattutto di chi se ne è avvantaggiato, della costante spaccatura in fazioni che ha caratterizzato quest´ultimo secolo e mezzo.
Le conseguenze pesano ancora oggi su tutti noi, espresse nel disagio di essere italiani, nella distanza sempre maggiore tra paese reale e paese legale, cioè tra la gente e lo Stato, percepito come una sorta di monolite dal quale dipende tutto ma, al tempo stesso, dal quale non devi aspettarti niente.
I mali di oggi hanno cause lontane che non è più possibile continuare a nascondere dietro il paravento di una bugia passata per "memoria condivisa": dopo 150 anni di favole risorgimentali è arrivata l'ora di dire la verità.

Guido Vignelli (Roma, 1954), studioso di etica, politica e scienza delle comunicazioni, è stato tra i fondatori del Centro Culturale Lepanto, del quale è vicepresidente.
Dal 2001 al 2006 è stato componente della Commissione di Studio sulla Famiglia istituita dalla Vicepresidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tenuto corsi di aggiornamento per docenti al Faes e l´Oeffe di Milano, l´I.P.E. e l´Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, la Scuola di Formazione Sociale dell´Arcidiocesi di Palermo.
Alessandro Romano è appassionato ricercatore e studioso della storia delle Due Sicilie, svolge da anni un´intensa attività di animazione culturale. Dirigente del Movimento Neoborbonico, ha ricevuto nel 1998 dalla Principessa Urraca di Borbone-Due Sicilie il brevetto ad honorem di Capitano.

«(...) Ancor oggi si afferma che l´unificazione avvenuta tra il 1860 e il 1870, per quanto non certo esemplare, fu inevitabile in quanto l´unica storicamente possibile. È la solita presunzione di trasformare il fatto compiuto in diritto acquisito.
(...) la cosiddetta unità d´Italia non fu una vera unione politica, ma fu una mera unificazione statale. (...) una unione politica avviene quando le sue potenziali componenti si infeudano o si federano con un patto intorno a un´autorità riconosciuta come superiore - per motivi di prestigio o di potenza - alla quale affidano il potere supremo. In questo senso, tra il 1861 e il 1870, tra i popoli italiani non è stata fatta una vera unione ma una mera unificazione, la quale non ha creato una società vitale e organica ma ha solo prodotto qualcosa di artificiale, meccanico. (...). In concreto, fu un´impresa d´invasione, conquista e annessione fatta dallo Stato militarmente più potente e diplomaticamente più influente - quello sabaudo - ai danni degli altri Stati italici, alcuni dei quali più antichi, ricchi e prestigiosi ...»
«(... ) In concreto, l´unità d´Italia è stata fatta separando, ed anzi opponendo, le sue necessarie componenti: ossia l´Italia e la Chiesa, l´élite e il popolo, la Patria e lo Stato, il Nord e il Sud.»
«(...) La concezione liberale dello Stato calzava a pennello con le nuove strategie mafiose. Durante l´avanzata di Garibaldi, subito dopo le razzie delle casse comunali e dei beni dei non allineati, il comando passava ai "picciotti", i garibaldini siciliani composti nella quasi totalità da "squadriglieri" e "campieri" della mafia locale.»
«(...) Rastrellamenti, bombardamenti, fuoco e fucilazioni indiscriminate e sistematiche misero fine ad ogni rivolta, ad ogni parvenza di opposizione, anche di parte liberale, anche di parte filosabauda.
Su una popolazione di sette milioni di abitanti in pochi mesi le vittime sfiorarono le 700 mila unità; gli arrestati in attesa di processo arrivarono a 500 mila. I superstiti delle stragi furono imprigionati oppure allontanati dai loro paesi di origine per fare posto ad altri deportati provenienti dai circondari vicini; intere comunità che avevano cercato scampo con la fuga, al loro ritorno furono respinte e costrette a riparare in località amiche o, in alcuni casi, a diventare nomadi.»
«L'Unità d'Italia è stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L´unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all'opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali» (Giustino Fortunato, lettera a Pasquale Villari, 2 settembre 1899).



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A ROCCADARCE

Il lavoro teatrale di cui diamo notizia
si terrà il 28.12.2011 al teatro Federico II di Roccadarce.







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A FALVATERRA




sabato 24 dicembre 2011

E' NATALE





Il Signore si dona all’Umanità per redimerla dal peccato e dall’inganno. Nascerà ancora nei tanti cuori afflitti dalle ingiustizie e dai soprusi, nascerà tra gli uomini di buona volontà e tra chi non ancora ha goduto della gioia del suo perdono. Nascerà tra di noi, figli dispersi di una Patria immortale.

Giungano a tutti voi ed alle vostre famiglie, cari Fratelli ritrovati, GLI AUGURI PIÙ SINCERI per un Sereno e Santo Natale.

La Redazione della Rete delle Due Sicilie.



Mimmo Cavallo show storico musicale

Su un’idea dell’instancabile compatriota Giuseppe Marino, è stato approntato uno spettacolo musicale molto particolare al quale il nostro grande Mimmo Cavallo ha ritenuto dare la sua preziosa opera di autentico cantautore meridionale.
Un componimento artistico sui generis dove la tecnologia delle immagini si fonde magistralmente con il talento della voce ed il tocco magico dell’emozione musicale.
Insomma uno spettacolo da non perdere, una prima in assoluta nella bellissima Biccari.

Cap. Alessandro Romano








venerdì 23 dicembre 2011

Gran galà di fine anno









CONVEGNO A GIOIOSA JONICA


Giovedì 29 dicembre 2011, alle 09.30, presso il palazzo Amaduri di Gioiosa Jomica, si terrà un convegno sulle insorgenze antiunitarie, nel corso del quale, tra l’altro, saranno esposti alcuni fatti inediti, frutto di recenti ricerche di archivio che saranno resi noti anche nella pubblicazione degli atti.
Al termine dei lavori, alle ore 19.00, a cura dell’Associazione Due Sicilie “Nicola Zitara”, nella Chiesa della S.S. Addolorata in Gioiosa Jonica (RC) sarà celebrata la Santa Messa in suffragio di Francesco II di Borbone, ultimo Re delle Due Sicilie, dei Soldati caduti a difesa della nostra Terra e delle decine di migliaia di prigionieri di guerra meridionali lasciati morire di fame e di freddo nei campi di concentramento piemontesi.





mercoledì 21 dicembre 2011

MESSA IN SUFFRAGIO

di

S.M. FRANCESCO II



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IL MOVIMENTO NEOBORBONICO
E L’EDITORIALE IL GIGLIO

annunciano


la SS. Messa in suffragio dell’anima santa di Francesco II di Borbone, ultimo Re delle Due Sicilie, nell’anniversario della sua morte avvenuta il 27 dicembre 1894, che si terrà nella Chiesa di San Ferdinando di Palazzo in Napoli, Piazza Trieste e Trento (Piazza S. Ferdinando), martedì 27 dicembre, alle ore 18.

Alla SS. Messa che sarà officiata in rito romano antico, saranno presenti il Marchese Pierluigi Sanfelice di Bagnoli, Delegato di Napoli del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, ed il Cav. Marco Crisconio dell’Arciconfraternita di San Ferdinando di Palazzo.
La commemorazione sarà tenuta dal Presidente del Movimento Neoborbonico prof. Gennaro De Crescenzo.
Presenzierà un picchetto d’onore dei Cavalieri dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio con labaro, sarà eseguito l'Inno Nazionale delle Due Sicilie di Giovanni Paisiello e sarà esposta la Bandiera di Stato.

Il Movimento Neoborbonico, unitamente a tutte le sue componenti rappresentative centrali e periferiche, invita gli iscritti, i compatrioti, i Confratelli dell’Ordine Costantiniano e gli amici nella Fede e nell’Ideale a presenziare la funzione in suffragio del Re.


Cap. Alessandro Romano







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Fu Francesco II di Borbone il vero “re galantuomo

parola di Matilde Serao


Il passo che segue, relativo al trapasso di S.M. Francesco II, è stato tratto dall’opera: “Per la traslazione in Santa Chiara di Napoli dei resti mortali degli ultimi Sovrani delle Due Sicilie” – Napoli 1984 – di Padre Gaudenzio dell’Aja, francescano.

””” Nella seconda decade di dicembre, la Regina si recò ad Arco per trascorrervi i giorni di Natale e di Capodanno insieme col Consorte, ma la vigilia di Natale le condizioni di salute di Francesco di Borbone si aggravarono. Il 26 dicembre, dopo la celebrazione della Messa, furono amministrati al Sovrano il Viatico e l'Estrema Unzione.
Confortato dalla benedizione del Sommo Pon¬tefice, Francesco II si spense in Arco il 27 dicem¬bre 1894, alle ore 14,34.
Erano presenti al transito la Regina Maria Sofia, il Conte di Caserta e gli Arciduchi di Au¬stria, Alberto, Ranieri ed Ernesto.
Napoli apprese la notizia della morte di Fran¬cesco II di Borbone dalle colonne de Il Mattino. Matilde Serao scrisse in prima pagina un articolo dal titolo « Il Re di Napoli », in cui fra l'altro diceva: «Don Francesco di Borbone è morto, cri¬stianamente, in un piccolo paese alpino, rendendo a Dio l'anima tribolata ma serena.
Giammai principe sopportò le avversità della fortuna con la fermezza silenziosa e la dignità di Francesco secondo. Colui che era stato o era parso debole sul trono, travolto dal destino, dalla inelut¬tabile fatalità, colui che era stato schernito come un incosciente, mentre egli subiva una catastrofe creata da mille cause incoscienti, questo povero re, questo povero giovane che non era stato felice un anno, ha lasciato che tutti i dolori umani penetras¬sero in lui, senza respingerli, senza lamentarsi; ed ha preso la via dell'esilio e vi è restato trentaquat¬tro anni, senza che mai nulla si potesse dire contro di lui. Detronizzato, impoverito, restato senza pa¬tria, egli ha piegato la sua testa sotto la bufera e la sua rassegnazione ha assunto un carattere di muto eroismo... Galantuomo come uomo e gentiluomo come principe, ecco il ritratto di Don Francesco di Borbone».
La salma di Francesco II, vestita con abiti civili su cui spiccavano le decorazioni e fra queste la medaglia al valore militare per la difesa di Gaeta, restò esposta nella camera ardente fino alla sera del 29 dicembre ”””.



Francesco II sul letto di morte




martedì 20 dicembre 2011

Quando Ferdinando II andava in mezzo al popolo aizzato dai giacobini



S.M. Ferdinando II di Borbone



Una storia che, finalmente, ci consente di individuare i malefici promotori della continua e  sistematica maldicenza che ferì nell'onore e nella credibilità il grande re Ferdinando II di Borbone.
Un altro importante tassello mancante della storia viene collocato al posto giusto da un ricercatore preciso e, soprattutto, onesto.

Cap. Alessandro Romano

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Il "Re Bomba" e l'erba Botris
di
Massimo Jevolella



«Ahi, miseranda Sicilia! Se non più le restava da sopportare in tanti numerosi infortunii, che l’hanno ravvolta sin da tempo più antico, poteva ora con il più lacerante presentimento aspettarsi una sì fiera coorte di mali, che l’avesse interamente travagliata e consunta?».

Correva il settembre del 1837. La furia del colera si era spenta a Palermo da poche settimane, e già il cavalier Vincenzo Pergola dedicava a “Sua Eccellenza Marcello Fardella duca di Cumia, gentiluomo di camera di Sua Maestà, cavaliere di Gran Croce del R. O. Costantiniano, ecc., ecc., e direttore generale della polizia medesima in Sicilia” un opuscolo di cinquantadue pagine, grondanti lacrime, terrori, e inni alla rinnovata speranza in un futuro di grazia, di luce universale e di redenzione; e intitolava quell’opuscolo, stampato dalla Tipografia del Giornale letterario in via Maestra dell’Albergaria n. 240, Descrizione istorica del cholera asiatico avvenuto a Palermo in quest’anno 1837.
L’enfasi di quella descrizione, che ben presto si rivela tutta intesa alla lode del governo borbonico, dei suoi eroici e fedeli sudditi siciliani, e del suo operato durante i giorni terribili della strage, ha in realtà un suo fosco retroscena, un sottinteso significato, una precisa, puntuale, e fatalmente grottesca ragione politica. Che una rapida rievocazione degli avvenimenti di quell’estate lontana basterà, spero, a riportare alla luce, a ennesima ed eterna conferma di un principio che mai si vide decadere nei tempi delle più cupe tragedie umane: anche allora si volle colpire un responsabile, si gridò al veleno, si cercò l’untore, e poiché allora il vento della storia soffiava avverso ai Borboni, non si tardò ad additare nel re, Ferdinando II, il vero, satanico cavaliere segreto di quell’immane apocalisse.
(Trent’anni più tardi, caduti i Borbone, e regnanti i Savoia sull’Italia unita, una nuova ondata di colera trovò gli animi dei siciliani assolutamente immutati, e naturalmente pronti a mormorare contro nuovi e fantastici untori e complotti politici governativi, com’ebbe a ricordare anche Giovanni Verga nell’undicesimo capitolo dei Malavoglia: «Lui invece, se gli avessero portato la ricetta del medico per qualche medicina, avrebbe aperto la spezieria anche di notte, che non aveva paura del colera; e diceva pure che era una minchioneria di credere che il colera lo buttassero per le strade e dietro gli usci. – Segno che è lui che sparge il colera! – andava soffiando don Giammaria. Per questo nel paese volevano fargli la festa allo speziale; ma lui si metteva a ridere come una gallina, preciso come faceva don Silvestro, e diceva: – Io che sono repubblicano! Se fossi un impiegato, o qualcuno di quelli che fanno i tirapiedi al Governo, non direi! –»).
Quasi due secoli fa, a Palermo, le condizioni della pubblica igiene non erano assai peggiori di quelle odierne (l’indignazione di Goethe per i cumuli di munnizza lasciati imputridire nelle strade ne aveva già reso vana testimonianza un altro mezzo secolo prima); e scavalcando appunto il marciume delle tradizionali fitinzìe abbandonate, una turba di fimmine si era diretta e radunata, in quel soffocante pomeriggio di mercoledì, 7 giugno 1837, sotto la volta austera della Madonna della Catena, a snocciolare, gemendo, rosari d’invocazione contro il terribile morbo del Bengala, il colera assassino che già seminava lutti nel Napoletano, alitando sull’Isola il suo fiato di morte.
Del Cholera morbus si parlava ormai dall’agosto del 1817, quando la pestilenza si era messa in viaggio da Calcutta verso la Siberia, la Nuova Olanda, l’isola di Timor e la Cina. Dopo aver placato a Oriente la sua onda velenosa sterminando quattro milioni di cinesi, l’epidemia aveva aggredito nel 1830 la Russia, precipitando nel lutto Mosca e Pietroburgo, per proiettarsi subito dopo in Polonia, in Boemia, in Galizia, in Austria e in Ungheria. Il 26 marzo era apparsa a Parigi, dove nel giro di poche settimane aveva mietuto oltre diciottomila vittime.
Ma per molti anni, in Sicilia, del colera si erano uditi solo fantastici racconti dalle truci ed esotiche tinte. È vero, sì, che il 25 luglio del 1831 il viceré Leopoldo, conte di Siracusa e fratello di re Ferdinando, aveva ordinato di «stabilirsi lungo le spiagge un cordone sanitario a cautela contro il cholera»; ma il giovane conte, che allora era appena succeduto nel governo dell’Isola all’inviso e corrotto marchese delle Favare, aveva soprattutto mirato, con quel proclama, ad accattivarsi le simpatie dei sudditi, offrendo loro un bell’esempio di amorevole sollecitudine, per altro non richiesta dai più spavaldi e ignoranti tra i campioni del popolo: fra la plebe, a quei tempi, un po’ per esorcistica celia, e un po’ per effettiva credenza, circolava infatti un triviale proverbio scaramantico: fatt’amicu cu’ la vutti, c’u culera nun ti futti. E il vino forte della Sicilia sembrava più indicato degli altri a far da antidoto alla nuova peste.
Nel 1836, però, il morbo aveva superato le Alpi ed era esploso nell’Italia settentrionale. In agosto aveva raggiunto Ancona, e re Ferdinando da quel momento aveva dato ordine che si interrompessero le comunicazioni tra i suoi domini e gli Stati Pontifici, vanamente sperando di sbarrare il passo all’epidemia. Ma fu questione di poche settimane. Il 2 ottobre il colera s’abbatté anche su Napoli, dove uccise quasi quattordicimila persone nel giro di pochi mesi. Lo sventurato e peregrinante Giacomo Leopardi si stabilì nella capitale borbonica il 5 ottobre, subito lodando in una lettera a suo padre la “dolcezza del clima” e la bellezza della città, che gli parvero un balsamo per i suoi malanni. La risposta di Monaldo gli giunse tre mesi dopo, e il poeta a sua volta chiariva: «La confusione causata dal cholera e la morte di tre impiegati della posta potranno forse spiegarle questo ritardo». Nel marzo del 1837, Giacomo scrisse nuovamente al padre: «Io, grazie a Dio, sono salvo dal cholera, ma a gran costo». La sua fibra stremata si spezzò il 14 giugno.
Esattamente una settimana prima, a Palermo, in un vicolo della Kalsa, un grido di donna aveva infranto l’onda ritmica delle litanie e il torpore degl’incubi sospesi. Dopo breve agonia era morto un giovane marinaio, di nome Angelo Tagliavia. Di lì a poco, in una casa accanto moriva tra gli spasimi più atroci un altro giovane marinaio, Salvatore Mancini, compagno del Tagliavia.
«Sono morti di colera» fu subito la voce della gente. Ed era vero. La Kalsa fu invasa da una folla angosciata, trepidante, ma anche sprezzante e incosciente. Dalle case dei morti si alzavano volute di suffumigi profumati; forse incensi, bruciati da chi – un sacerdote, un frate? – sperava con essi di purificare l’aria ammorbata dal colera. E tra la gente c’era chi ghignava: «Li ammazzano coi fumi, li ammazzano!». Le prime vittime avevano appena esalato l’anima, e già vi era chi insinuava, per boria o per sarcasmo, e senza magari rendersene conto appieno, l’eterno, immancabile grido di stolida difesa: li ammazzano, ci ammazzano! E un filo di fumo era bastato a evocare quel fantasma.
Già verso la fine dell’anno precedente, a Napoli, gli avversari del governo avevano approfittato del colera per seminare tra la gente il sospetto che lo stesso sovrano fosse l’occulto capo di una setta di avvelenatori. I politicanti “liberali”, che si dicevano eredi della ragione illuministica contro la barbarie oscurantista, brandivano ora, con abiette mormorazioni, l’arma superstiziosa della caccia all’untore per suggestionare la plebe e scatenarla contro l’odiato tiranno. E per Napoli circolavano strane voci, favole grottesche da sabba infernale: il re possiede, e con studiata ferocia nasconde, la miracolosa teriaca del colera, una certa, misteriosa “erba Botris” ch’egli somministrava solo a se stesso e ai membri della sua famiglia, per salvarsi dal flagello diabolico ch’egli stesso, forse, con arti malvagie rinfocola e sparge.
Ma Ferdinando non si lasciò mettere nel sacco; mostrò, invece, coraggio e intelligenza. Il futuro Re Bomba, vittima designata delle magnifiche sorti e progressive, scese tra la gente dei quartieri più poveri, entrò nei lazzaretti, mangiò pubblicamente il pane che si diceva avvelenato, elargì forti somme per la cura dei malati e il soccorso di vedove e orfani. Ben pochi credettero che il sovrano, nottetempo, si divertisse a diffondere nell’aria fumi esiziali, o a infettare con micidiali polverine l’acqua dei pozzi e la farina dei fornai. E la rabbia popolare si spense prima ancora di divampare.
Ma in Sicilia, dove il governo napoletano era sentito da molti come un giogo straniero, le cose erano destinate a prendere tutt’altra piega. Alla fine di agosto si conteranno sessantacinquemila e 256 morti in tutta l’isola, dei quali quarantamila nella sola Palermo; e di questi, la maggior parte soccomberanno in soli quaranta giorni, da quel fatale 7 giugno al 17 luglio, data in cui la virulenza del morbo, per sue cause imperscrutabili, inizierà ad attenuarsi.
Mentre il colera apriva la danza macabra della strage, la città sbandava e si disgregava. Scuole e tribunali chiudevano, il commercio era paralizzato, scarseggiavano i viveri, il popolo fuggiva verso la campagna mentre i ricchi si barricavano nei loro palazzi. Intere case si svuotavano, banditi e sciacalli si scatenavano, le madri morivano per non separarsi dai figli agonizzanti, le processioni dei penitenti s’inerpicavano su pel Monte Pellegrino a implorare il soccorso della pietosa Vergine Rosalia.
Sul gran teatro del mondo balenarono drammaticamente in quei giorni tutti i raggi e i riflessi della sublimità e della miseria umana. L’unica legge imparziale era quella del morbo, che non risparmiava nessuno, e uccideva indiscriminatamente. Morivano come le mosche gli abitanti dei quartieri più poveri, moriva il barone asserragliato nel suo palazzo barocco, moriva l’energumeno che aveva violentato la fanciulla resa orfana dal colera, morivano insieme, nello stesso letto, gli sposi innamorati che avevano preferito la morte alla separazione, moriva il religioso che si era prodigato per gl’infermi, moriva persino la monaca di clausura nella sua cella.
Nel riferire gli esiti della catastrofe, e nel descrivere le sofferenze inflitte dal morbo alle vittime, Vincenzo Pergola scrive la pagina più intensa e vera del suo retorico opuscolo: «Dapertutto non più umane fisonomie vedevi, ma larve attonite, scarne, dolenti, e con lo spavento in su gli occhi. Tutte queste stragi faceva la pestilenza, la quale tanto più accresceva il raccapriccio, l’orrore e la desolazione, quanto più orribile faceva divenire la faccia dell’infermo! E quale e quanta atroce si fosse nel travagliare l’addolorato corpo de’ mortali, non è a dirsi, o pensarsi. Giacché dal momento più inopinato di perfetta salute, improvvisamente ammalandosi l’uomo, nel volger brevissimo di poche ore, tutti pativa gli strazii, che offrir possano le infermità tutte della terra. Sete ardentissima, indomabile, né per addensate acque, né per neve istessa, che somministrar si potesse continuamente, come se divoratrice fornace ne arroventasse le interne pareti delle viscere. Inquiete, intollerabili, spessissime ambasce, che né per mutar di sito, né per cangiar di posto, sostavano alquanto dal tormentarne le desolate membra. A questo univasi un lamentar cupo, un singhiozzare interrotto, un grondar freddo sudore, che dolori a dolori accresceva. Da quinci innanzi farsi incavernato nero nero lo sguardo; incavernate le tempia; le narici impicciolite e compresse; livide, e contorte le labbra; sconvolto, ed appassito il mento; ritirata la pelle; contratte le mani; fievole, e roca la voce: finché irrigidite le estremità, non si attendeva che serrarsi il varco alla vita».
E mentre la strage si consumava, il fantasma del veleno si agitava sempre più nelle fantasie stravolte, per completare a tutti i costi il quadro di quell’orrore universale. In Sicilia erano pochi ad avere dubbi: la pestilenza era l’opera diabolica di untori stranieri, al soldo del tiranno napoletano. A Palermo persino molti intellettuali credettero nella tesi del genocidio. Del resto, non fu proprio la classe intellettuale una di quelle che maggiormente subirono l’assalto del morbo? Basti dire che in quei giorni morirono personaggi come Domenico Scinà e Nicolò Palmeri, sommi della cultura del tempo. E si racconta che lo stesso arcivescovo di Palermo, il settantenne cardinale Gaetano Maria Giuseppe Benedetto Placido Vincenzo Trigona e Parisi, il 5 luglio spirasse dicendo: «Non v’è rimedio per questo veleno» (idea giustificabile, per lui, dal momento che la sua sfilza di nomi, di alte cariche e di santi protettori non era stata in grado di salvarlo). La Sicilia agonizzava maledicendo il Borbone; ma quando il contagio si accanì nelle contrade orientali dell’isola, l’odio per l’untore si tramutò in sommossa, e ben presto degenerò in cieca violenza.
A Siracusa un anziano avvocato, Mario Adorno, si pose alla testa della rivolta con proclami deliranti. Proprio allora in città era incappato per disgrazia un girovago tedesco, tale George Schwentzer, che assieme alla famiglia e a una coppia d’inservienti riusciva a campare con fantasiosa onestà offrendo alla gente lo spettacolo del cosmorama: una camera ottica che ingrandiva immagini di paesi lontani, dando l’illusione di ammirare davvero le cime delle Alpi o le maestose anse del Reno. Ma un giorno la folla imbestialita, che a causa di quell’innocente scatolone vedeva ormai in Schwentzer una sorta di malefico stregone, si avventò sul tedesco, sbriciolò il cosmorama e tentò di linciare il mago e i suoi amici. Intervenne la forza pubblica, la folla si scagliò su un commissario e lo trucidò a bastonate, pugnalate e colpi di pistola. Gli amici del tedesco subirono la stessa sorte.
Schwentzer salvò per quel momento la pelle e finì in prigione. Pochi giorni dopo, però, i facinorosi assaltarono il carcere, ne strapparono il poveretto insieme alla giovanissima moglie, alla figlia piccina e ad altri quattordici innocenti: di tutti venne fatto orrendo scempio in piazza. Sola scampò all’eccidio la bimba, che per miracolo fu sottratta all’ira dei forsennati da una donna, illuminata da una fiamma di pietà.
Ma in settembre, con la certezza che il cholera morbus volteggiasse ormai, lontano, su altri di lidi, ecco il ricordo di quelle atrocità dissolversi, e la fede nella vita, e nel governo (perché no?) quasi per tocco di magia risgorgare nei cuori sollevati. E il nostro Vincenzo Pergola chiudere la sua Descrizione istorica con queste radiose parole: «Così dagli animi furono banditi i timori, le ore scorsero di giorno in giorno più liete, e di bel nuovo annunziatrice di bei giorni sereni spuntava gaia e ridente su i nostri colli l’aurora».



sabato 17 dicembre 2011

REGGIA DEL CARDITELLO
LO SCEMPIO CONTINUA

di
Nando Cimino



Altro furto nel Real Sito borbonico: hanno portato via gli ultimi metri di pavimentazione. Gli studenti si mobilitano con un sit-in fuori la struttura mentre i 'filosofi' della politica locale (su tutti Zinzi) continuano inermi ad osservare ladri che entrano in casa propria (di Nando Cimino. Un altro furto nella Reale tenuta di caccia dei Borbone. Fa male persino scriverlo. Un’altra insanabile ferita nel corpo agonizzante della Reggia di Carditello. Nella notte di venerdì, i soliti ignoti, hanno asportato gli ultimi quattro metri quadrati di pavimentazione dal terrazzo superiore del corpo centrale del fabbricato. Quello stesso terrazzo dal quale sono stati razziati i pilastrini in pietra arenaria delle balaustre, la corona in marmo sovrastante lo stemma di casa Savoia e, prima cinque metri, successivamente quindici metri e ieri notte infine, gli ultimi quattro metri quadrati di mattonelle in cotto risalenti all’epoca dell’edificazione del sito. I balordi, prima di abbandonare il luogo del reato hanno sfilato, dalle rete elettrica interna incassata nelle pareti, anche le ultime decine di metri di fili di rame dalle pareti. E’ stata la guardia zoofila Tommaso Cestrone, ad allertare il dipendente del consorzio, in possesso delle chiavi del cancello della casa di caccia. Non c’è voluto molto per individuare il maltolto. La domanda è, quanti altri furti occorrono, prima che qualcuno faccia qualcosa di concreto e definitivo per tutelare la Reggia dei Borbone?
Si ha persino il sospetto che questa storiaccia, dal vago sapore di speculazione dal retrogusto amaro, sia funzionale alle passerelle del “diremo” e del “faremo.” E’ la cronaca di una morte annunciata, che offende tutto il popolo, sano, di Terra di Lavoro. La parola più usata dalla gente comune, legata alla Storia che promana dal quel corpo agonizzante e cresciuta nella sua ombra è, “VERGOGNA!”
Ieri mattina, una folla di giovani studenti universitari, provenienti dalla facoltà di architettura di Aversa, ignara di quanto fosse accaduto nottetempo, si è accalcata davanti al cancello di ingresso della reggia. Volevano accedere all’interno per studiarne le straordinarie fattezze architettoniche, ma il cancello è rimasto sbarrato. Alessandro Manna, presidente dell’associazione culturale “Salviamo Carditello”, che da tempo si batte per la tutela di questo pezzo di storia meridionale, non ha dubbi: “Oggi la responsabilità è del presidente Caldoro e della sua giunta. La società che ha in carico il recupero del credito nei confronti del Consorzio di Bacino, proprietario del sito reale, ha dato disponibilità per la risoluzione della vicenda attraverso una transazione finanziaria con la Regione, dilazionabile in tre riprese, che metterebbe fine a questa angosciante vicenda. Non ci sono più alibi; la strada e segnata. La Reggia di Carditello, va salvata.”
Ora, mancando la copertura, si temono le infiltrazioni d’acqua che, se non tamponate in tempo, devasteranno anche gli affreschi alle pareti. La speranza è che, almeno a questo aspetto, chi deve, ponga immediato rimedio.







L'immane devastazione degli ambienti


I preziosi pavimenti settecenteschi deturpati dai grafomani










Neoborbonici al Carditello




giovedì 15 dicembre 2011

Prossimi appuntamenti






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Chiara Curione, autrice del libro per ragazzi “Un eroe dalla parte sbagliata”, dedicato al famoso “Sergente Romano” di cui ne è la discendente indiretta, parteciperà alla Rassegna del libro per ragazzi di Cassano.
Il giorno 17 dicembre, alle ore 18.00, il tema della serata sarà il Brigantaggio e periodo post-unitario.






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Sabato 17 dicembre, alle ore 16.30, presso la Sala del Consiglio Comunale di Terzigno, presentazione-dibattito del nuovo grande libro di Pino Aprile “Giù al Sud” sul tema “I terroni salveranno l’Italia” con Pino Aprile, Eddy Napoli, Gennaro De Crescenzo, Salvatore Lanza e a cura del Movimento Neoborbonico con Nadia Citarella e Gennaro Ambrosio, con il patrocinio  del Comune di Terzigno e alla presenza del Sindaco e del Presidente del Consiglio Comunale. Un’occasione importante per confrontarsi con l’autore del best-seller “Terroni” (oltre 500.000 copie vendute) e con i Neoborbonici sulla drammatica situazione dell’area vesuviana e del Sud e sulle concrete possibilità di riscatto di una Terra, nonostante tutto, ancora ricca di possibilità e di potenzialità.